Itaca n.3 - page 16

[16]
interviste · perl’appunto
piccole note a margine di una conversazione
perl’Appunto è le note a margine di una con-
versazione, sono gli appunti scritti a matita a
piè di pagina. Sono note personali, esclusive
e sempre segnate dall’emotività. Note fatte
di parole, quelle più sentite e proprio per
questo vere e in controluce, nitide. Arrivano
da questioni comuni questi intimi colloqui,
tanto comuni che alla fine del rigo riusciamo
ad essere uno. Qual è il tuo colore preferito?
Che cosa stai leggendo? Cosa ti meraviglia e
cosa ti rende felice? Non solo certamente, ma
anche, e qualche volta in modo particolare,
“esprimi un desiderio”. Le interviste di Itaca
sono in notturna, fatte di quelle domande
che mai ci si aspetterebbe, somministrate
alle 21.21. ad un’ora doppia come è doppio
il titolo di questa rubrica. Il processo creati-
vo che l’intervista vuole innescare è volto ad
una ricerca introspettiva che analizza l’animo
umano, le crisi e i dubbi che riguardano il
proprio ruolo e poi l’essenza. Per l’appunto, le
note a margine di Itaca, vogliono testimoniare
l’esperienza umana attraverso la registrazione
e la condivisione della storia mentre ques-
ta si manifesta. Mostrandone i paradigmi, i
modelli di riferimento, per mezzo di editoriali,
reportage e interviste a personaggi che nel
loro settore incarnano un “modello” o che
questo modello “perl’Appunto” lo mettono in
discussione. “perl’Appunto” ci ricorda da dove
veniamo, racconta che cosa siamo e proprio
grazie a questo ci aiuta a rileggere il mondo
che ci circonda trasformando, il “dove stiamo
andando”.
Le suggestioni che produce sono molteplici
e non tanto per confutare o condividere, ma
soprattutto per riflettere sulle esperienze per-
sonali e raccontarne l’anima.
perl’Appunto
Giuseppe Dell’Acqua, classe ’47, ha avuto
la fortuna di iniziare a lavorare con Franco
Basaglia fin dai primi giorni triestini, parte-
cipando all’esperienza di trasformazione
e chiusura dell’Ospedale Psichiatrico.
Tuttora vive a Trieste dove è stato Direttore
del Dipartimento di Salute Mentale per dici-
assette anni fino all’aprile del 2012.
(La bio completa a pag. 8).
Intervista allo psichiatra e direttore della
collana 180, Peppe Dell’Acqua.
D. Dottor Dell’Acqua, assistiamo al pro-
gressivo disimpegno pubblico rispetto
alla cosiddetta malattia mentale. Lei cosa
osserva dalla sua prospettiva?
R. È quanto mai evidente un indebolimento del
“sistema di salute mentale”. Non credo sia da
attribuire soltanto al disimpegno pubblico. Si
parla sempre, spesso con molta approssimazi-
one, di mancanza di risorse e di investimenti.
Ma non è solo questo. Io credo che il disim-
pegno pubblico ha molto più a che vedere
con le culture, con la persistenza di modelli
teorici e operativi inadeguati, con le “le psi-
chiatrie” della pericolosità, delle porte chiuse,
delle contenzioni. In realtà, a ben vedere, l’im-
pegno pubblico in termini di risorse economi-
che non è trascurabile. I costi per “strutture”,
migliaia di posti letto residenziali, troppi, dom-
inano prepotentemente i bilanci. Si spende per
riprodurre cronicità, coltivare la malattia, radi-
care dispositivi istituzionali e poteri economici
che finiscono per essere intoccabili, fuori da
ogni sensata programmazione. I servizi di
salute mentale territoriali sono così soffocati,
impediti, ridotti alla miseria dell’ambulatorio
e dei servizi di diagnosi e cura ospedalieri.
Diventa molto difficile far vivere servizi vera-
mente attraversabili, che rispettino le persone,
che si pongano il problema della guarigione,
della cura, dell’abitare, del lavoro, della difficile
“banalità” della vita quotidiana. Ormai in tutte
le regioni, i posti letto residenziali assorbono i
due terzi del bilancio per la salute mentale, e
questa tendenza sembra essere inarrestabile.
Disimpegno pubblico potrebbe essere questo:
consumo passivo di risorse senza interrogarsi
su quali modelli culturali e a sostegno di quali
“psichiatrie” si riproducono quei luoghi di cro-
nicità. Eppure esperienze di superamento di
questo stato sono in corso. Investire le risorse
che si buttano via a pagare rette per sostenere
invece progetti riabilitativi personalizzati, non
solo è possibile ma, la dove accade, sono
evidenti le possibilità di ripresa che si offro-
no alle persone. Ecco, intendo questo come
disimpegno pubblico: una preoccupante con-
vergenza tra un pubblico che consuma risorse
senza nessuna prospettiva sensata di crescita
delle reti di servizi e senza nessuna capacità
di verifica e una psichiatria che si muove sem-
pre e ancora su acuzie e cronicità. Non sono,
tuttavia, né disperato, né pessimista perché
vedo ovunque esperienze ricche di prospet-
tive, cittadini e associazioni sensibili e parte-
cipi, operatori competenti e generosi, forme
di rapporto pubblico-privato che riescono a
privilegiare progetti personalizzati di cura, pro-
getti terapeutici riabilitativi, abitare assistito,
formazione, lavoro.
D. In realtà la parola “diagnosi” ha l’etimo-
logia in “dia-gnosis”, “via per la conoscen-
za”. Non le sembra piuttosto il contorno
entro il quale si confina l’Uomo Nero?
R. Riflettere sulla questione della diagnosi può
chiarire meglio il significato di quanto abbiamo
definito “disimpegno pubblico”. Il dominio, la
prepotenza direi, della psichiatria farmacolog-
ica, del paradigma medico , gioca molto nel
riprodurre la “certezza” dei saperi e dell’agire
psichiatrico. Affrontiamo la sofferenza delle
persone, il loro bisogno di riuscire a esserci,
di non scomparire, con strumenti tanto ina-
deguati quanto a rischio di produrre danni
spesso irreversibili. La diagnosi, nella sua
presunzione di scientificità, diventa il punto
più controverso dei passaggi che oggi rischi-
amo di fare. Rischiamo di allontanare sempre
più lo sguardo dalle persone, dai soggetti, dai
bisogni, dai diritti, dai conflitti, dalla ruvidez-
za delle esistenze. È questo il problema che
stiamo vivendo. Quando la parola diagnosi
diventa dominante, le persone scompaiono.
Ai primi di giugno a Pistoia il Forum salute
mentale (che io frequento) ha tenuto la sua
assemblea nazionale, “Le politiche e la cura.
Cittadini, persone, soggetti”, ha voluto rilan-
ciare temi per trovare la passione e l’entusi-
asmo per le politiche “della liberazione” e per
i diritti, e interrogarsi sull’incuria che non ha
mai abbandonato il campo delle psichiatrie;
per denunciare la diffusione delle “strutture”,
che altro non sono che i luoghi della cronicità,
il consumo insensato delle risorse, il dominio
delle farmacologie, le porte chiuse, le conten-
zioni, l’isolamento, la persistenza delle nuove
forme di internamento dopo l’Opg.
È necessario ritornare alle politiche della salute
e della salute mentale: riporre al centro, la
parola “cura”, persona, cittadino, soggetto,
così come è stato all’inizio della lunga sto-
ria della deistituzionalizzazione che fortuna-
tamente abbiamo potuto vivere nel nostro
paese.
D. L’ombra è il limite oltre il quale sta tutto
ciò che come esseri umani non vogliamo
incontrare; il folle non è forse l’uomo che
dialoga con la sua ombra, vi si confonde
a volte, altre la rincorre o la teme, giocan-
doci?
R: La follia è dentro di noi. Ricordando
frammentariamente una conversazione con
Basaglia, voglio dire che per noi, per chi ha
vissuto il manicomio, il grande teatro della
follia, la follia è vita, tragedia, tensione. È una
cosa seria. La malattia mentale è il ridicolo,
la mistificazione, il vuoto. Una cosa che non
c’è, la costruzione a posteriori per occultare
l’irrazionalità. È il dominio della Ragione. In
questo senso posso riconoscere la follia come
tensione, relazione, riconoscimento dell’altro,
delle esistenze che ci circondano. La ragione,
la diagnosi, la malattia cancellano ogni possi-
bilità di incontro. Le conoscenze che abbiamo
potuto acquisire e le profonde conseguenze
del cambiamento nei destini delle persone che
vivono l’esperienza del disturbo mentale apro-
no impensabili possibilità. Con la caduta delle
mura del manicomio non ha più senso definire
“un dentro e un fuori”. Abbiamo cominciato
a incontrarci in uno spazio di mezzo. I varchi
aperti da Marco Cavallo sono diventati soglie.
Soglie che abbiamo, impreparati, cominciato
ad abitare. Nessuno può più immaginarsi
“fuori”. Ci incontriamo, conversiamo, ci rico-
nosciamo sulla soglia. Abbiamo qualcosa da
scambiare l’uno con gli altri, in un luogo dove
non siamo mai né dentro né fuori. Ed è proprio
lì che incontro l’Uomo Nero e posso riconos-
cerlo come l’altro me.
E riconoscere la mia ombra.
D. Secondo la sua visione del panorama
nazionale, gli attuali modelli di cura ritengo-
no “centrale” incontrare l’uomo, (compren-
dendo che chi diventa malato di mente è
colui che soffre e vive il dolore della mente)
o piuttosto lo dimenticano?
R: Sono tentato di dire che il lavoro che
dobbiamo fare è quello di continuare a met-
tere in moto parole, culture, esperienze che
permettano di cogliere il senso della cura,
dei luoghi dell’incontro, dei gesti insostituibili
dell’accoglienza. Che aiutino a contrastare
la smemoratezza, a ricercare nelle poderose
esperienze, che pure abbiamo attraversato,
il senso del quotidiano, ad avere il coraggio
del progetto. Le attuali forme organizzative,
il modello medico-psichiatrico che sembra
dominare il campo, la prepotente autoreferen-
zialità delle stesse organizzazioni, la riproduz-
ione di politiche regionali inconfrontabili (20
sistemi differenti di servizi di salute mentale
quante sono le regioni) finiscono per mettere
“tra parentesi” non la malattia, al contrario
mettono all’angolo la storia, le relazioni, le
passioni, i sentimenti, le emozioni. Le donne
e gli uomini scompaiono, diventa irrilevante
il dolore della mente, incomprensibile la sof-
ferenza umanissima. Nel panorama nazionale,
purtroppo, questa è l’immagine dominante. Le
risorse vengono consumate (distrutte) inves-
tendo nelle strutture residenziali che presup-
pongono e riproducono cronicità e nei servizi
ospedalieri (e le innumerevoli case di cura) per
l’acuzie. Tutto si consuma nel trionfo di una
logica riduttiva, e arcaica. Il Centro di salute
mentale, il luogo della cura, dell’incontro, del
riconoscimento, la soglia, si riduce ad ambu-
latorio, a luogo misero incapace di collocarsi
nella città, nei luoghi dove si abita, dove si
vive, dove è possibile l’incontro. Gli investi-
menti per queste politiche sono scarsissimi. Le
culture della salute mentale scompaiono. La
dimensione etica è sconosciuta. Quando i fili
delle relazioni possibili diventano sempre più
esili è perfino impensabile incontrare l’Uomo.
D. Sembra che le porte degli Opg chiudano,
sembra che si aprano le nuove porte delle
residenze ( rems) per gli alienati pericolosi.
Qual è secondo Lei il senso?
R: Le porte degli ospedali psichiatrici si stanno
aprendo. Sono stati chiusi per due secoli ed è
ora che si aprano. Questo è un dato di fatto
e da qui dobbiamo partire. Il nostro paese
con coraggio, ha deciso di scrivere la parola
fine sui meccanismi arcaici di internamento
sopravvissuti dal XIX secolo fino ad oggi.
Conseguenze delle luminose visioni positiviste
hanno superato, nella più generale trascura-
tezza, la Costituzione repubblicana, la legge
180, le nuove possibilità di conoscenza intorno
al disturbo mentale che si sono affermate a
partire dal secondo dopoguerra, lo sviluppo e
il radicamento delle democrazie.
Il passo che stiamo facendo ha uno spessore,
culturale, scientifico, politico profondissimo. Il
rischio di rallentamenti e di tentazioni regres-
sive sta nelle cose. Nessuno deve illudersi
che aperte le porte degli Opg ogni cosa trova
giudiziosamente la sua collocazione. Inizia una
storia con quel 31 marzo.
Le Rems (Residenze per l’esecuzione della
misura di sicurezza) sono un passaggio di
questa storia. Non è ciò che desideriamo. Il
rischio di riproduzione degli stessi meccanismi
di annientamento e delle insensatezze dei dis-
positivi di internamento sono già in agguato. I
servizi di salute mentale così come sono orga-
nizzati ricorrono massicciamente alle strutture
residenziali e finiscono per proporre in alterna-
tiva agli Opg strutture residenziali, solo Rems.
Da qui dobbiamo riproporre con ostinazione
Centri di salute mentale aperti 24 ore, servizi
di salute mentale in tutti gli ambiti penitenziari,
progetti terapeutici riabilitativi personalizzati.
Affrontare ora con maggiore consapevolezza
l’arcaicità (la stupidità) dei dispositivi di inter-
namento, segnatamente la misura di sicurez-
za, eredità pesantissima del codice Rocco
del 1930, l’inconsistenza della pericolosità
sociale e la fragilità della perizia psichiatrica.
Restituire diritti (la legge è uguale per tutti),
il diritto a essere giudicati innanzitutto e di
essere condannati, se colpevoli! Restituire
responsabilità. Il 31 marzo è cominciata un’al-
tra storia e possiamo affrontare diversamente
tutta la questione. La legge 81, che definisce
le regole per arrivare alla chiusura definitiva
degli Opg pone limiti alle misure di sicurezza,
ci interroga sulla pericolosità sociale, indica la
strada dei progetti personalizzati come prima
scelta obbligata in alternativa alla misura di
sicurezza detentiva. Dobbiamo renderci conto
che in questo mestiere non c’è mai una fine.
Il conflitto, la dialettica, lo scontro, l’incontro
tra follia e normalità ci sopravviveranno. C’è
ancora qualcuno che dice “ma con la legge
180 alla fine cosa è successo? Niente! Si sono
chiusi i manicomi, ma poi?”. La risposta è che
sì, si sono chiusi i manicomi ma poi è iniziato
un cammino lunghissimo. Riprendendo uno
slogan del maggio francese; “Ce n’est qu’un
début continuons le combat! “, (è soltanto
l’inizio, la lotta continua). I passaggi sono lenti
ma progressivi, e credo che se confrontassi-
mo la condizione di oggi con quella di allora,
non riusciremmo nemmeno a riconoscerla. Se
qualcuno mi avesse detto (quarant’anni fa,
quando ho iniziato a lavorare), che oggi avrem-
mo aperto le porte ai manicomi giudiziari, avrei
pensato “ma questo è matto?”. Di passi ne
abbiamo fatti, c’è tanto da fare ancora, e poi
ancora, subiremo dei colpi ma è importante
che le porte dei “manicomi criminali” si stan-
no aprendo. Sono ottimista evidentemente.
Senza ottimismo questo mestiere non l’avrei
potuto nemmeno vedere.
Trieste, 3 giugno 2015
Il folle
è ciò che è dentro di noi, il dialogo con la nostra e le altrui follie
1...,6,7,8,9,10,11,12,13,14,15 17,18,19,20,21,22,23,24
Powered by FlippingBook