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cultura · affabulazioni
È un neologismo affabulatio - onis: la morale
della favola; una persuasione improntata su
un impegno stilistico alto. Pervade la visione
Rinascimentale dell’uomo fautore del proprio
destino, poi con le inquietudini barocche di
malinconiche sofferenze, arriva alle liriche col-
te in cui il narrare si fa eloquente in seducenti
artifici. Le parole affabulate sono al servizio
dell’immaginazione, illuminano e creano nuovi
scenari completandosi con la gestualità. È cul-
tura: arte, conoscenza e scienza, fisica e me-
tafisica, materia e spirito, essere ed apparire.
È comunicazione che favorisce la crescita, la
diffusione e la fruizione del bello che ricerca
l’immaginazione e recupera la dimensione del
fantastico: il sogno; la favola; la magia; il misti-
co. Allora si puo’ decidere di aderire all’esteti-
ca, necessaria per affascinare e persuadere, o
andare al teatro cercando la verità delle illusio-
ni. E poi esternare, poetare, dire e maledire, in-
vocare, minacciare o inneggiare. Costellazioni
di pensieri in forme di aforismi. Leggeremo di
pittori clandestini. Filologi severi ed esercita-
ti. Complessi di memorie. Transiti di passioni
umane…che poi è la vita.Tutto questo è affabu-
lazioni; uno strumento che nobilita il senso in-
dividuale contribuendo alla dimensione plurale
dell’esistenza. È il piacere di leggere, il formula-
re pensieri sul mondo che si vive e su quello che
ancora si desidera. È cum-sentire grandioso e
fantastico della relazione; in altri modi, con altri
mezzi. Una bifora, un antico portone con mo-
nogramma del santo, un simbolo, una pietra.
Trattenere un pensiero o trarlo da un profondo
recesso con meraviglia, brivido e smarrimento.
Cosi le parole recano stampigliate l’ombra
leggera del sospetto e l’anima liberata dalla
speranza. Tutto in una libertà di fondo lontana
da autocompiacimento, sempre avvalendosi
di sfumature etiche. Saper stare tra crociate o
invasioni musulmane, rivoluzioni tecnologiche,
poesie e verità. Sempre sull’orlo di qualcosa,
sapendo scommettere di non poter essere più
gli stessi.
PEPPE DELL’ACQUA
Non ho l’arma che uccide il Leone
Classe ’47, ha avuto la fortuna di iniziare a
lavorare con Franco Basaglia fin dai primi
giorni triestini, partecipando all’esperienza
di trasformazione e chiusura dell’Ospedale
Psichiatrico. Tuttora vive a Trieste dove è stato
Direttore del Dipartimento di Salute Mentale
per diciassette anni fino all’aprile del 2012.
Insegna psichiatria sociale presso la Facoltà
di Psicologia dell’Ateneo di Trieste. Nel 1988
pubblica “Il folle gesto” che raccoglie l’espe-
rienza sulla questione della perizia psichiatrica
e del lavoro presso il carcere e nell’ospedale
psichiatrico giudiziario. Nel corso dell’attività
lavorativa ha svolto e organizzato consulenze
scientifiche ed organizzative in varie sedi in
Italia, in Europa e nelle Americhe tenendo cicli
di conferenze, seminari, verifiche tecniche.
Ha pubblicato un manuale, “Fuori come va?
Famiglie e persone con schizofrenia”, rieditato
nella III edizione da Feltrinelli Editore (2010).
È tra i promotori del Forum Salute Mentale,
avamposto per la tutela dei diritti delle persone
con disturbo mentale. Nel 2007 ha pubblicato
“Non ho l’arma che uccide il leone”. Trent’anni
dopo torna la vera storia dei protagonisti del
cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel
manicomio di San Giovanni, con un’inedita
prefazione di Basaglia. Tra il 2009 e il 2010
è stato consulente scientifico e storico nella
realizzazione della miniserie RAI “C’era una
volta la città dei matti” sulla vita e l’operato di
Franco Basaglia. È ora impegnato nel campo
dell’editoria come direttore della collana “180
archivio critico della salute mentale”.
Non ho l’arma che uccide il Leone.
Siamo
agli inizi degli anni settanta. Prima a Gorizia,
poi nell’ordinato e fiabesco parco sulla collina
di San Giovanni che nasconde il manicomio
di Trieste, Franco Basaglia inizia a scardina-
re i cancelli della psichiatria, a liberare - una
a una - le persone che vi sono rinchiuse, a
cancellare per sempre dai corpi e dalle menti
il duplice marchio del “pericolo” e dello “scan-
dalo” che leggi, usanze e costumi conferivano
alla follia e ai folli: poveri, pericolosi e scanda-
losi. Che ricominciano a respirare, a parlare,
uscire, camminare, sognare e raccontare i
propri sogni, ritornando a essere ciò che sono.
Persone, cittadini con un nome, un cognome,
un indirizzo, una professione, un conto in
banca, uno stato civile, un campo d’azione
dove giocarsi un futuro. Peppe Dell’Acqua,
giovane psichiatra arrivato a Trieste, registra
queste voci. E da quell’ascolto prende vita
una grande e unica testimonianza, mai sentita
prima. Ed ecco che “Non ho l’arma che uccide
il leone” diventa un classico che, come tutti i
classici, ha la fortuna di trovarsi nel posto giu-
sto al momento giusto: quell’attimo fuggente e
magico in cui viene scritto un pezzo di storia,
dopo il quale niente sarà più come prima.
GABRIELE NISSIM
La Lettera a Hitler
Giornalista, storico e scrittore, nel 1982 ha fon-
dato L’Ottavo Giorno, rivista italiana dedicata
ai temi del dissenso nei paesi dell’Est Europeo
e, per Canale 5 e TSI (Televisione Svizzera
Italiana), ha realizzato numerosi documentari
sull’opposizione clandestina al comunismo, sui
problemi del post-comunismo e sulla condizio-
ne ebraica nell’Est. Ha collaborato con i perio-
dici Panorama e Il Mondo e con i quotidiani Il
Giornale e Il Corriere della Sera. Nel 2000 fonda
a Milano il Comitato Foresta dei Giusti - Gariwo
Onlus con l’intento di ricordare le figure esem-
plari di resistenza morale ai regimi totalitari nella
storia del Novecento in Europa e nel mondo.
Ha innovato il concetto di memoria, poiché ha
voluto mettere in luce gli individui che sono
stati capaci di venire in soccorso dell’altro nelle
situazioni estreme e che hanno avuto la forza di
difendere la dignità umana. Ha universalizzato
la memoria dei Giusti non soltanto ricordando i
soccorritori degli ebrei ma estendendo questo
concetto a tutti i totalitarismi e ai genocidi. Nel
2003 ha promosso la creazione del Giardino dei
Giusti di tutto il mondo al Monte Stella di Milano
ed ha sostenuto la nascita del Giardino dei
Giusti di Yerevan in onoredelle figure esemplari
del genocidio armeno. Su sua iniziativa è sorta
Gariwo Sarajevo, presieduta da Svetlana Broz.
Nel 2010, per la Comunità Europea, ha dato vita
ai primi Giardini virtuali dei Giusti d’Europa con
il progetto W.E.Fo.R. (Web European Forest
Righteous) - I Giusti contro i totalitarismi. Nel
1998 è stato nominato dal Parlamento bulgaro
Cavaliere di Madara per la scoperta della figura
di Dimitar Peshev. Nel 2003 ha vinto il premio
“Ilaria Alpi”. Il 10 maggio 2012 il Parlamento
Europeo ha approvato, con la Dichiarazione
scritta n.3/2012, l’appello lanciato da Gabriele
Nissim per l’istituzione di una Giornata europea
dedicata ai Giusti per tutti i genocidi, da cele-
brarsi ogni 6 marzo, data dalla scomparsa di
Moshe Bejski.
La Lettera a Hitler.
Un giorno nel 1965
Johanna, una studentessa universitaria tedesca
in cerca di un’occupazione a Roma, legge sul
«Messaggero» un’inserzione: «Poeta tedesco
ricerca segretaria tedesca». Poco dopo essere
stata assunta, il sedicente poeta le detta una
lunga lettera in difesa degli ebrei che sostiene
di aver scritto e spedito a Hitler nel 1933, e le
chiede di inviarla a centinaia di indirizzi tede-
schi, fra cui quelli di alcuni giornali. Johanna è
convinta di avere di fronte un millantatore, ma
dovrà ricredersi quando, tornata in Germania,
si metterà a indagare sul suo datore di lavoro,
ripercorrendo così passo passo la vita di Armin
T. Wegner, scrittore e strenuo difensore dei
diritti umani, riconosciuto dagli armeni come
«giusto» per essere stato uno dei primi a
denunciare il dramma del loro popolo: il geno-
cidio del 1915-16.
WU MING 2 E CONTRADAMERLA
in “Surgelati”
Opera a dieci mani per scrittore e gruppo
rock.“Surgelati” esplora la terra promessa
dell’identità personale e collettiva, territorio
dove spesso la ricerca di senso rischia di soc-
combere all’arbitrario. Lo sguardo degli autori
si concentra e insegue la vena di ambiguità
che percorre la maggior parte delle narrazioni
diffuse sulle “radici”, concetto tangibile ed
evanescente al tempo stesso, in cui il confine
tra la fedeltà e inganno può diventare molto
labile. Un ragazzo si risveglia in una stanza
d’ospedale e tutto, ai suoi occhi, è bian-
co. Neutro, indefinito. Persino la sua stessa
immagine nello specchio. È stato ritrovato in
stato di assideramento in fondo a un camion
frigorifero, su cui ha attraversato il mare e
varcato clandestinamente una frontiera. E ora
la sua faccia non ha più espressioni, la sua
identità è surgelata. Tutto il contesto dove il
ragazzo è approdato tende a cucirgli addosso
un ruolo omogeneo alla sua condizione di
straniero, escludendo tutte le altre ipotesi e
soprattutto senza mai ascoltarlo veramente. Il
nuovo mondo di cose e di persone che gli si
manifesta al risveglio sembra volerlo spingere
verso immagini di sé che si rivelano immobili
e stereotipe, incapaci di rendere conto del
costante divenire delle identità e delle culture
nell’esperienza concreta.
ALESSANDRA CASTELLANI
Storia sociale dei tatuaggi
Antropologa, si interessa prevalentemente di
tematiche relative al rapporto tra culture gio-
vanili, innovazione culturale, moda e studi
di genere. Insegna Sociologia e Antropologia
della comunicazione all’Istituto Superiore per
le Industrie Artistiche di Firenze. Ha insegnato
per molti anni all’Accademia delle Belle Arti
di Frosinone e più recentemente all’Acca-
demia delle Belle Arti di Napoli. Ha lavorato
come ricercatrice nel mondo del Terzo Settore
occupandosi di migrazione, di prostituzione
e di disagio giovanile. Inoltre svolge la libe-
ra professione come ricercatrice qualitativa
occupandosi, tra l’altro, di copy-test, di idea-
zione di prodotto, di posizionamento di brand
soprattutto per grandi aziende internazionali,
in particolare nel settore dei media, dell’elet-
CLAUDIO WIDMANN
Il fascino dell’ombra e i patti col diavolo
È un analista junghiano attivamente impegnato
nel diffondere e nel difendere il più autentico
spirito psicologico di C. G. Jung e di M.-L. von
Franz. Un profondo interesse per la vita sim-
bolica e immaginativa accomuna la sua pratica
clinica ormai quarantennale e la sua attività di
ricerca culturale. Ha sempre esercitato la libe-
ra professione, ma svolge anche attività didat-
tica presso varie Scuole di Specializzazione in
Psicoterapia e in non poche occasioni è chia-
mato a tenere lezioni e seminari presso pre-
stigiose università, dall’Italia al Giappone. Da
vent’anni organizza convegni biennali su temi
simbolici di rilevanza collettiva ed esistenziale,
come il male, i riti, la morte, le coincidenze
significative che segnano la vita. È uno degli
autori più noti e fecondi nel panorama italiano
della psicologia junghiana. Le sue pubblica-
zioni comprendono sia trattazioni tecniche
sia esposizioni divulgative, ma si distinguono
quelle che rileggono attraverso la griglia dei
simboli aspetti ordinari e straordinari della
realtà, come il rapporto dell’uomo con il dena-
ro, con il destino, con la fiducia. O quelle che
scandagliano lo spessore simbolico di realtà
diffuse come i colori, le figure del presepe,
gli arcani dei tarocchi, l’immagine del gatto,
Affabulazioni
È cum-sentire grandioso e fantastico della relazione; in altri modi, con altri mezzi.
Speciale Ama Festival. Tutti i protagonisti
tronica di consumo, del food e del fashion.
Storia sociale dei tatuaggi. C’è stato un tempo
in cui il tatuaggio non era diffuso né ammesso
come una forma di modifica del proprio corpo.
Secondo la Genesi, il primo tatuato della sto-
ria, più precisamente segnato, è Caino, la cui
discendenza sarà maledetta. Tra i caratteri
distintivi del tatuaggio c’è proprio quello di
essere un marchio deprecabile, spesso asso-
ciato a prostitute e reietti. Proprio in virtù del
suo alone maledetto, il tatuaggio raggiunge
una notevole popolarità con la scena punk a
metà degli anni settanta del secolo scorso,
quando comincia a essere praticato e interpre-
tato come una forma simbolica di ribellione.
In un’epoca caratterizzata da una profonda
crisi economica e da un alto tasso di disoc-
cupazione giovanile, infatti, la teatralizzazione
punk della precarietà avviene anche attraverso
i tatuaggi, autoinflitti, in cui si ribadisce una
condizione selvaggia e marginale. A partire
dagli anni novanta, poi, il tatuaggio diventa
improvvisamente un segno diffuso e «nor-
malizzato», soprattutto tra i giovani, vissuto
senza più nessuna remora di ostracismo. E si
trasforma in moda. Del tatuaggio Alessandra
Castellani analizza le profonde radici e il pre-
sente, conducendoci in un viaggio attraverso
lo spazio e il tempo, dalla Bibbia alla Londra
degli anni settanta, dal nuovo mondo degli
esploratori settecenteschi a quello delle città
odierne. Una storia affascinante, scritta sulla
nostra pelle, che merita di essere raccontata.
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