cultura
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affabulazioni
Eco-logia
di Amilcare Caselli
Chi è stato Eco? Il romanziere, il filosofo, me-
dievalista o semiologo, sociologo, saggista di
estetica, professore emerito… Non si finireb-
be qui.
Non sono i titoli e le etichette che potrebbero
definirlo. Basta aprire la pagina di Wikipedia
per rendersi conto dei titoli, degli scritti e dei
campi d’interesse. Ma quello che lascia per-
plessi, e per molti origine di fastidio e diffiden-
za, è il successo. Sì perché è proprio questa
una delle parole chiavi di Eco: il “successo”.
Eco è stato per certi versi un vero terremoto
per le convinzioni filosofiche in genere: dal-
la sociologia alla semantica estetica, dalla
filosofia alla semiologia fino alle prospettive
antropologiche delle nuove comunicazioni, fu
un sisma proprio per le modalità spiazzanti,
per il comportamento critico sempre al limite
della provocazione, dell’ironia e dello scher-
zo, che Eco aveva comunque anche verso i
propri studi o le proprie convinzioni; sempre
pronto a confutare qualsiasi tesi consolida-
ta, vedi De Saussure o Peirce nelle indagini
semiologiche, o dei moderni pensatori delle
nuove filosofie sociali, Barthes, Derrida o De-
leuze. Conviviale, carnale e da osteria, suo-
natore di ocarina e fonte inesauribile di motti
e battute fu sempre pronto anche a confuta-
re se stesso ma sempre con una risata. Forse
è questo un altro dato che ha messo in crisi
una certa critica, per la verità sempre mino-
ritaria, che lo contestava ma che veniva si-
stematicamente zittita dall’importanza e dalla
profondità delle sue tesi incontrovertibili, an-
che se trattate attraverso visioni moderne e ai
limiti del paradosso.
Eco diventò così quasi subito un fenomeno
da studiare. Un oggetto di culto di cui esisto-
no numerosi trattati, saggi e articoli sulla sua
metodologia così come su Eco personaggio
e comunicatore, ma tutti, per quanto esau-
rienti o parziali, sono d’accordo nel definire
il suo successo come una rappresentazione,
un’emanazione diretta del suo Sé.
Scrive Paolo Fabbri: “Eco è stato fin dall’ini-
zio inventivo nei temi e nella scrittura di testi
brillanti e innovativi, e molto rapidamente si
è operato quello che in semiotica chiamiamo
un
débrayage:
la crescente evidenza di una
soggettività creatrice – cioè la sua enuncia-
zione – e sempre meno gli oggetti di cui si
trovava a trattare – cioè i suoi enunciati…”
E ancora Fabbri “Questa “dominante” della
personalità sui diversi contenuti smentisce la
supposta poliedricità di Eco, le sfaccettature
multiformi che lo renderebbero diverso a se-
conda dei punti di vista; è proprio il contrario:
Umberto Eco è un frattale, un oggetto geo-
metrico che non cambia aspetto a seconda
dei luoghi d’osservazione. La sua personalità
creatrice la si ritrova intatta in ciascuna delle
varie attività che svolge.”
Umberto Eco è stato forse il romanziere più
venduto e tradotto del secolo scorso, ma an-
che lì non si smentisce. I romanzi che tutti
conosciamo, nient’altro sono che un ulteriore
veicolo dei temi a lui cari: i segni, la filosofia
medievale, l’estetica, la sociologia. Prenden-
do in esame “Il nome della rosa” troviamo più
di cinque piani di lettura: da quello meramen-
te narrativo a quello esoterico, al teoretico…
troviamo pane per il lettore distratto che si
vuole svagare con una bella storia fino ai ro-
velli dei più raffinati filosofi ed esegeti. Ogni
suo romanzo è un sito archeologico: in ogni
strato c’è sepolta una città diversa, sempre
interessante e motivo di studi e quello che
impressiona, stupisce in Eco è, come dice-
vamo, il suo successo: il fatto di essere un
best seller non lo esime dall’essere fonte ine-
sauribile di citazioni e riferimenti coltissimi,
spunto per gli studiosi. Questo fa di Eco, ha
sempre fatto di lui, un vero “fenomeno” forse
irripetibile.
Ripercorrendo la carriera sin dagli inizi ci si
accorge facilmente che un ‘fil rouge’ esiste
quindi anche per Eco; anzi, questo filo è for-
mato da due refe, ritorte su se stesse e fra
loro, a rinforzare e consolidarsi l’un l’altra: la
prima è una solidissima conoscenza dei clas-
sici, un’ infallibile memoria e una notevole in-
telligenza critica; la seconda è il modo ironico
e irriverente di trattare i suoi temi, i suoi miti
non convenzionali.
Eco si laurea in filosofia nel ’54 con una tesi
sull’estetica di Tommaso d’Aquino.
L’estetica prevede una profonda conoscen-
za dei segni e della loro valenza e già qui si
profila il futuro innovatore sia dell’estetica sia
della semiologia.
Nel ’58 pubblica “Filosofi in libertà” sotto lo
pseudonimo di Dedalus. Molti intellettuali si
accorgeranno della scrittura spigliata e fic-
cante, le tematiche già fuori dai canoni usua-
li e l’anonimato contribuì alla curiosità della
stampa specializzata. Già Eco era padrone
delle tecniche di una nuova comunicazione
che veicolava al meglio le sue caratteristiche.
Sempre nella seconda metà degli anni ’50
entra a far parte della Rai contribuendo allo
svecchiamento di quello strumento che già
reputava centrale per i futuri sviluppi socia-
li. Proprio in seguito a questa esperienza in
Rai, nel ’61 produce un articolo/saggio che
farà scalpore: “Fenomenologia di Mike Bon-
giorno”. Questo articolo entrerà a far parte
di ‘Diario Minimo’ dove, tra gli altri numerosi
enunciati, c’è già uno punti chiave della ricer-
ca che non solo ritroveremo nei successivi
altri scritti del decennio degli anni 60 come
‘Opera aperta’, e ‘Apocalittici e integrati’, ma
lo accompagnerà sempre, rielaborandolo in
tutte le opere: ‘il messaggio’, ovvero ciò che
la comunicazione crea, la sua importanza,
vista dallo studio del mezzo emittente fino
al referente che è il fruitore che ne attua le
decodifiche e soprattutto le conseguenti ri-
percussioni sociali.
Vorrei soffermarmi su questo punto che ap-
pare centrale e anche perché il riverbero dei
concetti è a dir poco impressionante.
In poche righe è difficile rendere l’idea d’inte-
ri trattati di semiotica ma potremmo iniziare
dal concetto di “decodifica aberrante”: Eco
chiamò “modello semiotico-informazionale”
ciò che consente di concentrarsi sul conte-
nuto dei messaggi e non solo sugli aspetti
tecnici del loro trasferimento; occorre quindi
considerare anche la ricezione del messag-
gio. Eco operò numerose ricerche sulle rela-
zioni tra la televisione e il proprio pubblico,
ricerche che valgono ancora oggi per mass
media in generale e soprattutto per Internet.
In un convegno a Perugia nel 1965 Eco pro-
pose un modello di ricerca interdisciplinare
sul rapporto televisione-‐pubblico, soste-
nendo la necessità di uno studio comparato
di quel che l’emittente vuole comunicare, di
quello che il messaggio dice e di ciò che il
pubblico negli effetti comprende.
Il problema della comunicazione, da quella
orale a quella scritta e in modo più evidente
nelle telecomunicazioni, è l’inevitabile distor-
sione del messaggio, la decodifica aberrante
che avviene tra la trasmittente e il suo refe-
rente, che sia ascoltatore, lettore o telespet-
tatore/utente: qualsiasi messaggio arrivando
al suo obiettivo soggiace a una trasformazio-
ne che dipende sia dal livello culturale dell’e-
mittente che da quello dell’ultimo fruitore;
passando per ulteriori ‘distorsioni’, dovute
ai mezzi fisici e le loro interpolazioni, le in-
tenzioni del messaggio, una volta arrivate al
referente possono essere distorte, addirittura
ribaltate; Eco arriva a dire che più o meno di-
storte lo saranno in ogni caso; ogni lettore,
fruitore o utente tenderà comunque a trarre
sue proprie conclusioni o addirittura a raffor-
zare gli intimi convincimenti a dispetto delle
intenzioni del messaggio e della struttura cul-
turale del mezzo emittente. Addirittura l’effet-
to aberrante sarà amplificato dalla velocità e
dalla potenza dell’emittente.
Da questi spunti è possibile comprendere
non solo la valenza di un singolo messaggio
ma anche quanto pesa “l’ambito culturale”
dell’emittente stessa, soprattutto quando è
un organo di Stato o un grande network. Si
tratta di considerare quindi anche l’insieme
dei messaggi dell’emittente, la sua imposta-
zione culturale. Per fornire un’idea degli effet-
ti pratici dell’apparentemente semplice enun-
ciato ricordo che nella prima metà degli anni
’90 andai in Albania. Erano da poco aperte le
frontiere e la prima cosa che vidi a Durazzo
fu una selva di antenne paraboliche attaccate
ai tetti e ai balconi delle case malandate, un
paesaggio postbellico ma dove tutti avevano
la televisione e soprattutto la parabola. Fui
ospite della famiglia di uno dei tanti emigrati
che già lavoravano in Italia, venuti coi barconi
negli anni precedenti, e in casa, come tutti gli
altri, guardavano la Rai ma soprattutto i ca-
nali Mediaset. Chiesi spiegazioni, domandai
in giro e capii che quello era stato il punto di
rottura con il passato di quel paese; imma-
ginavano l’Italia come un paradiso di risate,
donne seminude, di abbondanza: la terra del
bengodi. Ogni albanese potrà confermarvi
questo. Riportando i parametri a questo nuo-
vo millennio, epoca di Internet e soprattutto
del web 2.0 dei social, possiamo notare che
ogni migrante dei flussi che oggi interessano
l’Europa ha uno smartphone: è importante
sapere che nei paesi sensibili come Africa e
Medio Oriente esistono siti e pagine sui so-
cial per combinare l’espatrio. L’esodo massi-
vo si organizza in Internet.
Pensiamo alla Primavera Araba che nel 2010
coinvolse in movimenti di protesta tutto il
Medio Oriente e il Nord Africa, le informazioni
velocissime passarono da Twitter e Facebo-
ok scatenando uno dei più importanti e vio-
lenti movimenti di sommossa di questi ultimi
anni. Questo ci mostra la potenza che (ormai)
hanno i mezzi di comunicazione. Ma per arri-
vare a capire questi ultimissimi anni dei nostri
paesi occidentali, dell’attuale comunicazione
e la loro ulteriore trasformazione, bisogna
tornare per un attimo ai ‘messaggi’ dei mez-
zi di comunicazione e della loro traducibilità:
potremmo dire che un messaggio o una serie
di essi, uno ‘stile’ quindi, di messaggi, viene
recepito e tradotto in genere da una catego-
ria di persone. Negli anni ’70, ad esempio,
esisteva ancora la categoria degli operai. L’i-
deologia degli operai si ritrovava e si formava
giocoforza nella fabbrica, come d’altronde
per ogni altra categoria che facesse capo a
uno status sociale, lavorativo, organizzativo,
o di un luogo anche ideale.
Il messaggio che arrivava a una di queste ca-
tegorie aveva quindi più probabilità di essere
digerito (accettato o confutato, comunque
discusso) in maniera collettiva. Oggi le grandi
fabbriche non esistono quasi più, come esi-
stono sempre meno anche tutti gli altri luo-
ghi comunitari di riferimento dove forgiare e
rispecchiare gli ideali.
La vera novità di quest’ultima forma di So-
cietà è l’essere vieppiù formata da Individui.
Sono vecchie le denominazioni come ‘classe
media’ o ‘proletari’ o ‘classe operaia’ perché
non ne esistono più i luoghi fisici e menta-
li, surclassate dalle chimere dell’edonismo e
dell’individualismo già a partire dagli anni ’80.
Di contro, come per reazione, le parole d’or-
dine della Nuova Comunicazione sono “So-
cial”, “Condivisione”, “Comunità”. Anche le
reti televisive sono diventate transnazionali,
grandi multinazionali dell’intrattenimento in-
terattivo a pagamento.
L’esplosione di quelli che chiamiamo social
niente altro sono che un ossimoro in verità.
Quasi 4 miliardi di persone sono collegate
dalle reti dei social in maniera velocissima
ma come individui solitari dietro uno schermo
dove ognuno tende a comportarsi come una
“emittente privata” col risultato della com-
pleta autoreferenzialità. Eco, parlando della
Televisione dagli anni ’80 in poi, disse che la
vera trasformazione si è avuta quando la TV
cominciò a parlare di se stessa a ripetizione.
Le notizie si cominciarono a creare all’interno
per l’interno e tra e per i personaggi televisivi
(anche politici beninteso), tutto iniziò a com-
piersi in un cortocircuito che però dava solo
l’impressione di coinvolgere anche la vita
all’esterno.
Una delle ultime provocazioni di Eco fu quan-
do, intervistato in occasione dell’assegnazio-
ne di una delle tante cattedre onorarie, dis-
se che internet aveva ormai definitivamente
sdoganato le opinioni degli imbecilli. La fra-
se ebbe vasta risonanza sui social sebbene
estrapolata da un discorso più ampio in cui
Eco, come sempre ha fatto, dichiarava per-
plessità ma anche fiducia nella Rete, ma for-
se non ha fatto in tempo a considerarne da
specialista gli ultimissimi sviluppi, quelli cioè
dove anche i blog tematici, le riviste in rete
che a loro modo erano luogo di comunità te-
matiche, non sono più frequentati, rimpiazza-
ti sempre più dai Social.
Ecco dunque, su questi argomenti sento di
più la mancanza di Eco. Lo abbiamo perso
nel corso dell’ultima importante trasforma-
zione di uno dei Miti dei suoi trattati, avrei
voluto continuare a sentirlo, a leggerlo a pro-
posito di questa nuova singolare solitudine
da moltitudine “Social”.
È il cum-sentire grandioso e fantastico della relazione, in altri modi, con altri mezzi.
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