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interviste
perl’appunto
Scusi posso farle una foto? Mario Dondero e Marco Cruciani
di Laura Mandozzi
D: Tu ti sei definito “un elfo sulle spalle di
un gigante” e mi sono chiesta, quanto non
sia il contrario? - Cioè che Dondero abbia
riconosciuto in te qualcosa che era suo
come la passione, l’indignazione, la lealtà
rispetto la realtà, tutti canoni che lui ha se-
guito, e che ti abbia “concesso” di salire in
spalla? Quanto c’è nel vostro incontro di
questa cosa?
R: Sicuramente il gigante è Mario, su questo
non c’è dubbio. Per quello che riguarda il no-
stro viaggio direi che è nato casualmente ma
che è stato allo stesso tempo il frutto dei miei
studi e delle mie ricerche nei settori dell’an-
tropologia e delle arti che tanto mi hanno fat-
to esaltare di fronte alla sua persona e alla
sua opera. Forse chissà, lui ha ritrovato in me
alcune caratteristiche che gli appartenevano,
penso come dicevi alla lealtà e all’indignazio-
ne, ad una certa povertà, all’entusiasmo e al
volersi abbandonare ai salti nel vuoto tipici di
questo nostro mestiere. Quando uno non è
particolarmente ricco è già un vero e proprio
salto nel vuoto fare questo lavoro, ci si but-
ta e si rischia sempre grosso. Forse Mario,
offrendomi la sua amicizia, mi ha concesso
l’opportunità di seguirlo e di fare il documen-
tario anche per queste ragioni, perché ha vi-
sto che stavo mettendo in gioco quelle carte
che lui stesso, ai suoi inizi, aveva iniziato a
giocare per intraprendere in modo sempre
più concreto il suo percorso ed esprimere al
meglio la sua visione.
D: Quello che viene fuori dai video è pro-
prio un incontro. Mario ha portato avanti,
anche nel fare questo documentario con
te, l’idea che è alla base sua della fotogra-
fia, cioè l’incontro con la complicità, la
condivisione.
R: Mario ha avuto anche la grande pazienza
di attendere tanto tempo. In un paio di occa-
sioni mi aveva anche rimproverato da mae-
stro grandioso quale è, senza offese ovvia-
mente, facendomi capire che dovevo iniziare
a circoscrivere l’azione. Un giorno mi disse
‘’guarda Marco, mi è capitato in vari reporta-
ge in questi anni di raccogliere talmente tan-
to materiale ed appassionarmi talmente tanto
all’argomento, di aver perso poi nel corso
del tempo il filo della questione, il centro di
gravità della cosa’’. Ed ho rischiato effettiva-
mente di perdermi, di coltivare troppe idee di
struttura, troppe ipotesi di narrazione; inve-
ce proprio quelle sue parole mi hanno dato
il la per iniziare, insieme alla montatrice Alice
Zazzetta, a raccogliere il materiale, sistemar-
lo e organizzare poi una struttura effettiva per
il documentario. Mi sono lasciato trascinare
soprattutto dalla sua storia meravigliosa che
è una composizione infinita di capitoli su ca-
pitoli, di personaggi, di storie appunto. Se
uno volesse fare un film sull’avventura incre-
dibile di Mario potrebbe non finirebbe mai, ci
vorrebbe una serie tv, è andata meglio fare
tutti questi viaggi con lui e farli sembrare col-
legati da un’unica strada.
D: L’idea della neutralità. Tra le cose che
Dondero ha sempre esplicitato in maniera
chiara è, che l’osservatore fa parte
dell’ambiente e in qualche modo lo influ-
enza. Lui dice che anche il fotografo non
è neutrale al 100%. Due fotografi, nella
stessa situazione, fotografano due cose
diverse. Nel fare un documentario, nel
viaggiare insieme, che cosa ci hai messo
di tuo?
R: Ho cercato fin da subito di rispettare tutte
le caratteristiche di Mario e di riportarle nel
mio linguaggio filmico e nella creazione del
documentario, sia dal punto di vista estetico
che tecnico-artistico. Ho cercato di rispet-
tare la sua essenzialità e la sua mancanza
di ossessione per la tecnica, favorendo una
intensa ricerca sui contenuti, sulla sostanza.
Dondero, nonostante la sua confidenza con
le persone e il suo modo di porsi sempre
come una porta aperta e luminosa, rimaneva
molto discreto. Lo vedevo muoversi in punta
di piedi in ogni situazione, dalle più divertenti
alle più serie. Il suo atteggiamento era spesso
quello di entrare e non fare troppo rumore,
cercare di capire dov’è il limite della sua li-
bertà di fotografo e di rispettare le persone
con sincerità e franchezza. Poi se si andava
a cena poteva sempre scatenarsi il delirio ma
insomma, era molto bello vedere quaranta
persone iniziare a cantare dietro di lui che si
lanciava ad intonare un brano storico...
Questo ci ho messo di mio: una grande am-
mirazione per il suo modo di fare e il desiderio
di esporlo e proporlo in un film documentario.
D. In un’intervista infatti lui diceva – io
chiedo sempre permesso prima di fo-
tografare, anche solo qualcuno per strada
R. Famosissimo il suo motto: “Scusi posso
farle una foto?”. Mario è una leggenda ed è
un cosi grande Maestro che non ha mai avuto
bisogno di avere una cattedra, bastava star-
gli vicino in trattoria o, meglio ancora, per la
strada.
D. Un altro tema che ricorre è il volere
bene. Voler bene alle persone permette di
fare belle fotografie. Come nasce in te il
desiderio di fare il documentario su Ma-
rio? - Questo voler bene da dove arriva?
- Probabilmente si è costruito e rafforza-
to nel corso del viaggio, ma lo era anche
prima?
R. Assolutamente, certo. È curioso andare in
giro con una persona tanto più grande ma lui
mi ha dato quella forza di dire: “ok, si può
fare, non c’è nessun problema”. È una perso-
na che ti invita ad andare ancora più a fondo
e senza paura, che stimola continuamente
nei pensieri e nell’azione, insomma davvero
un’esperienza che mi ha molto rinforzato nel
carattere. Per me, questa emozione grandis-
sima ha sempre nascosto però anche una
altrettanto grandissima responsabilità, quella
di raccontarlo in una storia che fosse alla sua
altezza; ma Mario si stava fidando di me e
questo mi ha donato sicurezza.
D. Per Dondero la fotografia ha una valen-
za sociale, antropologica. Nel descrivere
quello che avevi in testa, nel voler solo
raccontare e di metterci il meno possibile
di suo se non l’occhio che guarda e si in-
teressa di qualcosa. Nella tua posizione mi
viene da dire che sei un privilegiato, colui
che ha potuto stare accanto a Mario. Che
valenza sociale può avere il tuo racconto
oggi?
R. In questi cinque anni non sono stato tanto
privilegiato quanto ostinato nel cercare que-
sto privilegio. Non è stato per niente facile
agganciarsi ai suoi continui movimenti, lui
preferiva rincorrere i soggetti e fotografare
per raccontare, capiva l’importanza di torna-
re sulle cose, di mostrare la storia che viveva
e, nel contempo, muovere sempre in avan-
ti verso il futuro. Forse l’importanza sociale
di questo lavoro è legata al fatto che Mario
potrebbe essere considerato un faro per il
nostro avvenire, basti pensare che il preca-
riato per lui è stato una scelta di vita e una ri-
sorsa di continuo rinnovamento. L’amore che
ha messo nelle cose, il suo sguardo limpido
di fronte a stragi, situazioni tristi e infelici...
Ho visto tante persone sorridere vicino a lui,
sono convinto che abbia curato così anche
persone depresse o che si stavano dimen-
ticando dell’entusiasmo che ci vuole. Vorrei
quindi restituire questo personaggio come
fosse un monito, un punto di riferimento per
le nostre generazioni massacrate dalle crisi
e dall’ipocrisia, dall’instabilità professionale
ed esistenziale, dal tempo che corre ormai
troppo veloce e non basta mai. Mario anda-
va a passo d’uomo ed ha girato e rigirato il
mondo, aveva quelle corde lì, e come le ha
suonate bene!
D. La semplicità si costruisce, si vive
mentre fai. La semplicità arriva. È nella
semplicità in cui si guarda la vita che si
fonda il suo lavoro.
R. Nel lavoro la sua semplicità è fondata sulla
ricerca della verità e non sull’ossessione di
fare ad ogni scatto il capolavoro della vita; gli
interessava cogliere quel momento in tutta
la sua profondità. Ha scelto la fotografia per
vivere in modo sorprendente, sorprendendo
tutti.
D. Mario ha scelto il bianco e nero per le
sue fotografie, in quanto sosteneva che il
colore distrae. Ed è per questo che lo ab-
biamo scelto per il nostro tema dell’Om-
bra. È un uomo che nell’ombra ci è entrato
per poterla cogliere, è un uomo che non
è stato sotto i riflettori ma ha scelto di
stare nell’ombra per raccontare la pov-
ertà, l’emarginazione. Quanto devi amare
l’ombra per poterla fotografare? - Quanto
sei disposto ad entrarci?
R. Ho visto in lui un’intuizione che va al di là
del ragionamento e delle cose comprensi-
bili e razionali. Aveva un istinto puro ed ec-
cezionale, bastava lo sguardo o la parola di
una persona per far nascere in lui la voglia di
raccontare e appassionarsi a quella vicenda.
Non è uno che fa i suoi conti, ma ragiona in
prima battuta sempre di cuore e di pancia,
vede qualcosa e sente immediatamente che
quella cosa deve essere fotografata. È la cu-
riosità che lo muove, una curiosità mai inva-
dente, spontanea nel rispetto degli altri. Quel-
la curiosità che ti spinge ad imparare sempre
di più, attraversando magari le zone d’ombra
piuttosto che facendoti gli affari degli altri. La
fotografia è stata la sua scusa per conoscere
il mondo e tutto quello che c’è dentro.
D. A Dondero è stato proposto più volte
di diventare regista e non lo ha fatto per
scelta perché girare un film comprom-
ette questo flusso. Che reazione ha avuto
quando ha visto quello che hai costruito
tu? - Cosa ne pensa?
R. Mario era un grande appassionato di cine-
ma ed era molto informato, però la fotografia
è stata l’arte più adatta a lui in quanto era
un solitario nella professione; la sua libertà
era talmente vera e totale che nel lavoro di
equipe sarebbe forse venuta meno la sua vo-
glia assoluta di poter vivere ed entrare in una
situazione completamente. Il cinema è spes-
so più complicato e macchinoso, lui è stato
uno spirito libero che partiva con il suo treno
e i suoi libri. Spesso viaggiava con due mac-
chine fotografiche, una a colori con la quale
lavorava e una in bianco e nero con cui scat-
tava anche le sue foto personali. Spero sin-
ceramente che il mio lavoro possa facilitare la
conoscenza o la scoperta di Mario Dondero,
di questo ‘personaggio’ che d’impatto ti la-
sciava sorpreso e ti faceva chiedere da quale
pianeta fosse venuto, questo Uomo che ha
vissuto una vita veramente da applausi a
scena aperta.
Piccole note a margine di una conversazione.
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