carcere e storie
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ossimori
di Cecco Bellosi
Correva la metà degli anni Settanta e a
Como, ovviamente all’estrema periferia
della città, in mezzo a prati incolti, sorse
un nuovo quartiere di case popolari.
Un ghetto.
Come si usava allora, con una trentina di fa-
miglie di operai, lavoratori precari: c’erano
anche allora, disoccupati, organizzammo
l’occupazione di una parte degli appartamen-
ti sfitti. Anche perché non erano stati termina-
ti. Dopo i soliti sgomberi e gli allora altrettanto
soliti scontri con la polizia, la situazione ven-
ne regolarizzata. Assemblee, comitati di
quartiere e di condominio avevano il compito
di costruire una gestione collettiva di quelli
che, più che beni privati, apparivano come
beni comuni, in particolare nella parte del
parco, del campo sportivo, degli orti. Alle fa-
miglie occupanti se ne sommarono altre in
ordine sparso. Realizzammo subito che alcu-
ne di queste, ma anche altre che avevano
avuto regolare accesso alla casa tramite ban-
do, conducevano traffici opachi. Di droga, di
eroina. Un’altra bella illusione dell’epoca era
quella di poter stroncare lo spaccio colpendo
gli spacciatori: in quel caso avevamo argo-
menti convincenti per imporre il divieto di
vendita all’interno del quartiere. Durò poco.
Con gli anni Ottanta quelli che sembravano
invisibili e silenziosi, divennero i padroni di un
quartiere che era diventato il Bronx di Como.
Vedette, polizia che girava alla larga, garage
sfondati, cantine di nessuno, il parco coperto
di siringhe. E tanti, troppi ragazzi di via Di Vit-
torio: così, con una ironia involontaria, era
stato chiamato quel posto, erano cresciuti
con una siringa nel braccio e l’AIDS nel san-
gue. Nei primi anni Novanta tanti vennero in
comunità prima o dopo il carcere, tanti riem-
pirono di volti giovani il cimitero vicino. Nes-
sun servizio sociale entrava in quel quartiere
abbandonato a se stesso. Solo noi e pochi
altri, perché, essendo conosciuti, non veniva-
mo presi a sassate prima ancora di poter
scendere dalla macchina. Tra quei ragazzi ce
n’era uno, uno dei pochi, forse l’unico, che
era sfuggito a quel destino comune e che fa-
ceva l’infermiere. Veniva come volontario in
comunità e, giustamente, sosteneva di esse-
re un caso clinico da studiare. Era inoltre un
ragazzo, una mosca bianca anche in questo,
impegnato in politica e mi disse che con altri
pochi giovani e con un gruppo di famiglie re-
golari che erano sopravvissute al cataclisma
di quegli anni, intendevano bonificare il quar-
tiere. Pulendo il parco, rimettendo le porte al
campo da gioco, rattoppando i garage, chiu-
dendo le cantine. Non fu facile: soprattutto la
pulizia del parco sembrava una fatica di Sisi-
fo. Ma con una tenacia che sfiorava l’ostina-
zione ce la fecero. Organizzarono un conve-
gno sulla droga proprio lì, con gli altoparlanti
che arrivavano a tutti, anche a quelli con le
tapparelle abbassate. Al contrario dei conve-
gni normali, c’era tanta gente che si raccon-
tava e pochissimi esperti: al solo nome del
luogo, quasi tutti avevano declinato l’invito.
Fu un incontro drammatico e catartico. Mi
colpirono i fiori sui davanzali grigi, il segno
più aperto di una comunità in ripresa. Una
comunità che ha saputo autoripararsi. Dalla
distruzione a cui avevamo contribuito in tanti.
Dalle scelte politiche agli urbanisti del ghetto,
dal suo isolamento alla nostra supponenza di
gestire l’ingestibile, fino ad arrivare alle re-
sponsabilità più dirette dei mercanti che ave-
vano seminato morte non solo fuori, ma an-
che al loro interno. Ecco, se penso a una co-
munità riparativa, penso a quei fiori. E al per-
corso fatto per arrivare a quel tocco vivace di
colore in mezzo a condomini anonimi. Non
so se sia una storia a lieto fine: i risultati non
sono mai per sempre, i Bronx si spostano in
periferie sempre più estreme. E, in ogni caso,
il prezzo pagato è stato troppo alto. Ma, sen-
za il coinvolgimento della comunità, non si va
da nessuna parte. Come diceva don Lorenzo
Milani con una delle sue considerazioni es-
senziali e graffianti: sortirne insieme è la poli-
tica. Sortirne da soli è l’avarizia. La giustizia
riparativa esce dal paradigma della solitudine
che appartiene alla giustizia retributiva e trat-
tamentale. Il tema, all’interno del Gabbiano,
lo abbiamo incontrato riflettendo sui limiti del
sistema penale e su quelli del nostro inter-
vento con le persone che provenivano dal
carcere. In particolare, ci siamo trovati di
fronte a due problemi. Il primo è che le comu-
nità, soprattutto dopo la legge Fini-Giovanar-
di del 2006, devono svolgere, ancor prima
che una funzione di cura, un ruolo di control-
lo. Ogni violazione delle prescrizioni imposte
dal magistrato deve essere segnalata. A ulte-
riore dimostrazione che la giustizia tratta-
mentale è un’estensione, e non un’alternati-
va, dello stato penale. In concreto, un ospite
che sta svolgendo un programma con impe-
gno e fatica può tornare in carcere per un uso
saltuario di sostanze e, invece, un altro ospite
che non fa nulla tutto il giorno e non parteci-
pa minimamente al programma terapeutico
liberamente sottoscritto, non violando le pre-
scrizioni, ha più chances di rimanere fuori di
galera. Ma la nostra riflessione, secondo pro-
blema, si è svolta anche all’interno, a partire
dal fatto che i detenuti tossicodipendenti arri-
vano in comunità dal carcere per aver com-
messo dei reati e che non tutti i reati sono
uguali. Una persona, in questi tempi di mas-
sima sicurezza, può essere finita in prigione
anche solo per detenzione di sostanze stupe-
facenti, essendo considerato lo spaccio in-
trinseco alla detenzione di droghe. Ma un
detenuto può essere entrato in carcere anche
per reati contro la persona, come la violenza
intrafamiliare, lo spaccio di sostanze tossi-
che, lo scippo, il tentato omicidio o, in alcuni
casi particolarmente gravi, l’omicidio. In ma-
niera dapprima dettata dal buon senso, poi
da una riflessione più ampia, abbiamo co-
minciato a lavorare su questo a partire dai
colloqui in carcere. Mi è capitato di seguire,
tra gli altri, un uomo condannato per tentato
omicidio e un ragazzo che aveva prodotto più
volte lesioni a chi si trovava di fronte, in una
sorta di violenza compulsiva davanti alla mi-
nima contrarietà. Non è stato facile vederli
nelle loro peregrinazioni carcerarie, essendo
due detenuti riottosi alle regole. Il primo, sot-
to effetto di cocaina, aveva sparato a un av-
ventore ubriaco di un bar. Trovavo preoccu-
pante il motivo: l’ubriaco continuava a offrire
noccioline al cane dell’uomo, che dopo aver
provato a dissuaderlo verbalmente, gli ha
sparato al torace. Non uccidendolo per caso.
Era sotto effetto di sostanze, come spesso
capita ai tossici che commettono reati. Ma
non può essere un’attenuante, come non può
esserlo lo stato di astinenza. Quando espri-
mevo le mie perplessità agli operatori, non
trovavo strade percorribili. Si andava da chi
diceva: “ma chi te la fare” a chi sosteneva, da
buon animalista, che aveva fatto bene, “così
quell’altro impara a non dare le noccioline ai
cani, che gli fanno male”. Ai cani. Prendevo
tempo. Capivo che quell’uomo aveva delle
risorse, anche di guardare dentro se stesso,
ma che non ci aveva mai provato. Non gli ho
mai chiesto nulla, semplicemente lo guarda-
vo scettico quando provava a giustificarsi.
Fino a quando un giorno ha fatto un passag-
gio per me importante, ripetendo il ritornello
“non doveva dare le noccioline al cane”, ma
dicendo per la prima volta “però io non dove-
vo sparargli”. Da lì è iniziato il lavoro con lui.
Lo stesso è accaduto con l’altro ragazzo, che
per lungo tempo ha continuato a giustificarsi:
“mi hanno provocato”, “erano solo dei fottuti
albanesi”, “io ero da solo, loro erano in tre”.
Già, ma lui sapeva far male. Durante il per-
corso in comunità abbiamo proposto al pri-
mo di svolgere attività di volontariato preso
un reparto di persone che avevano subito
traumi, al secondo di svolgere un’attività di
aiuto allenatore con dei ragazzi che giocava-
no a calcio, uno sport che notoriamente, so-
prattutto nei campi di periferia, è esposto a
scontri e a risse, soprattutto tra genitori iste-
rici. Lo hanno fatto bene, tutti e due ne sono
usciti rafforzati. Allo stesso tempo, hanno ter-
minato il programma in comunità da oltre cin-
que anni, senza rientrare in carcere. E non
perché non si sono fatti più beccare. Da lì, da
quelle esperienze, è diventato piuttosto natu-
rale cominciare a discutere di giustizia ripara-
tiva e di mediazione dei conflitti. Prima ave-
vamo qualche remora: non per i contenuti,
ma per il contesto. La Raccomandazione del
Consiglio d’Europa scrive della mediazione
penale come del “procedimento che permet-
te alla vittima e al reo di partecipare attiva-
mente, se vi consentono liberamente, alla
soluzione delle difficoltà derivanti dal resto
con l’aiuto di un terzo indipendente (mediato-
re)”. In Italia però, anche se ora è in atto
un’inversione di tendenza, vi è stata negli ul-
timi dieci anni una deriva securitaria sempre
più forte, con l’inasprimento delle pene e
l’ampliamento dei reati che portavano diret-
tamente in galera, con la conseguenza di un
ricorso sempre più massiccio al carcere. Il ti-
more era che, in quel contesto, la giustizia ri-
parativa diventasse il quarto grado obbliga-
torio del processo e non un’alternativa alla
prigione. Oggi, molto più per forza che per
scelta, lo Stato ha iniziato a dare segnali di-
versi: la minaccia delle sanzioni europee per il
trattamento disumano e degradante derivan-
te dal sovraffollamento delle carceri, almeno
in parte, ha funzionato. A Lecco stiamo co-
struendo attorno al centro servizi per il volon-
tariato un sistema di associazioni disponibili
ad accompagnare le persone che hanno avu-
to una condanna, e anche a coinvolgere la
comunità territoriale nella tutela delle vittime
di reato e nella mediazione del conflitto. Ab-
biamo iniziato con le persone, delle più diver-
se estrazioni sociali, trovate alla guida in sta-
to di ebbrezza, che avevano violato quindi,
più o meno consapevolmente, l’articolo 75
della legge sulle droghe. Poi, la legge n. 67
del 2014 ha esteso dal diritto penale minorile
una misura importante che può essere inseri-
ta nei percorsi di giustizia riparativa per le
condanne fino a quattro anni. Il carcere, al-
meno in questi casi, non è più il centro del
mondo della pena. Ora occorre superare l’i-
dea che i percorsi vadano compiuti in solita-
rio, con il colpevole e la vittima che rimango-
no nel loro isolamento, al massimo tratta-
mentale. La comunità territoriale deve essere
sempre più coinvolta come attore protagoni-
sta e non come spettatore severo o distratto.
Altrimenti si tornerà al sistema retributivo.
Che non ha mai portato da nessuna parte,
facendo star male sia l’avaro che le vittime
della sua avarizia.
di Luigino Bruni
Non capiamo l’economia se non prendiamo
sul serio tutti i vizi e tutte le virtù degli uomini,
delle imprese, delle istituzioni, della nostra so-
cietà. Ma i vizi delle imprese e delle istituzioni
diventano particolarmente gravi quando sono
considerati virtù dall’economia e dalla politica.
Pensiamo al tema dell’azzardo – che non è
un ‘gioco’: la parolaccia ‘azzardo’ non va ac-
costata alla bellissima parola ‘gioco’. Esso è
un tipico caso di un enorme male istituzio-
nale che viene presentato come virtù pub-
blica. Che sia un male lo dicono i frutti che
porta: centinaia di migliaia di famiglie rovinate
da uno o più famigliari entrati nel giro delle
slot-machines, poker online, gratta-e-vinci, al
punto che è raro che in Italia non ci sia una
famiglia dove un parente, magari lontano,
non sia coinvolto da questa autentica piovra.
I centri storici delle nostre città e borghi stan-
no via via perdendo artigiani e negozi, che
contenevano e raccontavano decenni, a volte
secoli, di storia buona; al loro posto arrivano
come funghi sale gioco, nere e esteticamen-
te molto brutte, quasi sempre senza che le
istituzioni facciano adeguata resistenza alle
concessioni di licenze. Sto ancora aspettan-
do il giorno in cui le associazioni famigliari,
molto sensibili all’inizio e alla fine della vita,
inizieranno a fare scioperi della fame a tur-
no nei luoghi dove stanno per nascere nuo-
ve sale gioco o bingo, quando si renderanno
conto che i loro figli sono avvelenati dalle
scommesse e dall’azzardo almeno quanto
non lo sono dalle sigarette e dalla pornogra-
fia. Per non parlare delle decine di migliaia di
persone in cura presso le asl per dipendenze
da azzardo, il cui costo morale ed economico
per la collettività è difficilmente quantificabile,
ma sempre troppo alto.
Alla testa della macchina dell’azzardo c’è lo
Stato, che anche qui fa cassa con i poveri,
e con le disperazioni delle persone. Le en-
trate dall’azzardo sono in Italia circa 8 mi-
liardi l’anno, e nonostante le mille proteste
che arrivano al governo dalla società civile,
non si riesce ad ottenere praticamente nulla
di serio, da questo e dai governi precedenti.
Confindustria gioco, che rappresenta anche
le lobbies dell’azzardo, protegge molto que-
sto settore della nostra economia, al punto di
non riuscire a cambiare nulla, o solo aspetti
irrilevanti, riguardo la pubblicità nelle TV e
nei giornali dell’azzardo (che da quest’anno
è stata solo ridotta, ma non eliminata). Come
non si riesce a rendere illegali le slot-machi-
nes nei bar, luoghi frequentati dai nostri ra-
gazzi e bambini, e che sono in molte città luo-
ghi di socialità di giovani e anziani (che sono i
primi clienti di questo mercato di morte).
Noi del movimento slot-mob continuiamo a
lavorare, e a sperare che i cittadini e le isti-
tuzioni si sveglino, e un giorno riusciremo a
chiamare il male per nome, a combatterlo
seriamente e insieme, e a togliere i dadi dal-
le tante scene di passioni dei nostri poveri. Il
7 maggio ci siamo ritrovati con il movimen-
to slot-mob in 62 città d’Italia (inclusa Ascoli
Piceno) per dire no all’azzardo e sì al gioco
buono, con colazioni collettive e giochi di
piazza, biliardino, pingpong e molto altro. Di
fronte al vuoto della politica ci resta solo la
forza della nostra dignità e delle nostre scel-
te quotidiane. È la democrazia economica la
vera sfida della politica del prossimo futuro.
Una storia, più storie
La macchina dell’azzardo
La nostra realtà, la realtà dell’umanità, con i suoi controsensi e controtempi, con i suoi acuti ed i suoi ottusi, a volte contemporanei e conviventi in
una stessa azione, in uno stesso pensiero, in una stessa persona.
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