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L’immagine di Aylan e non il bambino Aylan,
è di dominio pubblico nel momento in cui la
fotografia viene scattata, quindi che senso
ha parlare di diritto alla pubblicazione e alla
diffusione? -
Di Renato Sarli.
ICome si chiamava? - Da dove veniva? Aveva
sorriso negli ultimi giorni? - Aveva paura? -
Ha capito cosa è successo? - Sono mille le
domande che ci potremmo porre pensando
ad Aylan, il bambino la cui immagine abbiamo
visto tutti. Un’immagine terribile, per quello
che significa, per il bambino che non è più,
per la sua famiglia. Invece il discorso su Aylan
verte sul problema etico “se sia giusto o meno
mostrare quella foto”. Questa considerazione
dovrebbe già farci inorridire. Invece no, tutti a
discutere del fatto che la foto potrebbe offen-
dere il padre sopravvissuto, turbare bambini e
coscienze, essere strumentalizzata da politici
e religiosi. Inorridire. Questo è il termine: inor-
ridire. Dovrebbe provocare dolore, dolore che
dal cervello si trasferisce al cuore e al corpo,
diventare fisico. Invece no, non è quello che
accade. L’immagine di Aylan e non il bambino
Aylan, è di dominio pubblico nel momento in
cui viene scattata, quindi che senso ha parlare
di diritto alla pubblicazione e alla diffusione? - I
media ormai sono incontrollabili. Hanno fago-
citato il diritto d’autore, figuriamoci il diritto
al pudore e alla compassione. E allora cosa
possiamo fare? - Come dovremmo porci nei
confronti di un’informazione di una violenza
incontrastabile, che ci propone istantanee di
decapitazioni, di povertà che uccide, di bar-
barie e infermità? - Dovremmo avere il corag-
gio di ritrovare la sensibilità, comprendendo
che la tecnologia è fredda, barbara, non può
discernere, ma solo optare. Dovremmo essere
sconvolti da quel bambino irrigidito in una
posa da pedina degli scacchi, con la faccia
rivolta verso la sabbia, non morto, perché
già morto, una forma inanimata che non ha
nessun contatto con la viva realtà del mondo,
a testa in giù, come se un alfiere bianco lo
avesse fatto cadere dalla scacchiera sulla
quale, lento pede, tra mille difficoltà cercava
di raggiungere l’altra sponda, una casella alla
volta, perché non poteva far altro che andare
avanti. Non poteva tornare indietro, questo
dovremmo capire. Non dimentico Aylan anche
quando vedo le immagini della devastazione
della Costa Azzurra aggredita da un improv-
viso fortunale. Venti morti, città spazzate dalla
furia di una tempesta provocata sicuramente
dai cambiamenti climatici. Venti morti, forse
di più. E i giornalisti nel dare la notizia non ci
parlano di questi morti, ma del disagio dei pel-
legrini italiani di ritorno da Lourdes e bloccati
su un treno. Oppure di una Ferrari travolta dal
fango. Mi viene in mente un’altra immagine,
scattata nel 2012 vicino al confine messicano
degli Stati Uniti. In Italia questa foto, pubbli-
cata dal Boston Globe, non si è vista. Non ha
ovviamente senso dire se questa foto sia più
o meno drammatica di quella del bambino
riverso sulla spiaggia, ma ci racconta la stessa
drammatica vicenda, narrata da un altro punto
di vista, con parole diverse, ma è la stessa
orribile faccenda di indifferenza e di impoten-
za. La foto rappresenta una tomba sulla quale
non c’è scritto un nome, non c’è scritto uomo,
donna, bambino. C’è scritto “ossa”. Una nota
tecnica, che ha il solo senso di descrivere il
contenuto di quel luogo. Sulle nostre tombe
c’è sempre una foto, un nome, una data, a
volte parole che ci consentono di ricordare la
“persona” che giace lì.
Bones
, ossa, oggetti,
non una persona. Aylan aveva con sé il padre,
che ha potuto gridare il suo nome, che è
risuonato nel mondo, mettendoci in relazione
con una persona, un bambino che non ce l’ha
fatta, mentre per tanti altri, dispersi e annullati
nel mare, svuotati di essenza in un deserto
africano o americano non c’è nemmeno que-
sto. E fanno meno rumore, non bussano ai
nostri occhi, non pungono le nostre coscienze,
perché non esistono come persone.
Si è alzata l’asticella, dicono. No. È diventato
irreale, è diverso. Il dolore non è fisico, questo è
il problema. Troppa velocità, troppa esposizio-
ne a notizie, informazioni, messaggi, immagini,
il cui valore si sfibra e il cui significato si perde.
Non possiamo però fermare questo flusso,
dobbiamo capire noi quale atteggiamento
avere nei confronti di tutto questo, con l’enor-
me pericolo di essere travolti dall’emozione.
Per Aylan e per Bones è giusto che queste foto
vengano pubblicate con la speranza che fac-
ciano riflettere noi che siamo così subissati da
fotografie e notizie banali. Immagini e notizie
che si sovrappongono le une alle altre, pezzi
di un film che non ci riguarda. Alla fine del film
cambiamo canale, vediamo un altro film pieno
di immagini cruente di cui non definiamo i
contorni, di cui non percepiamo il significato.
Come ci dimostrano le risonanze magnetiche,
se una persona prova un dolore fisico, il suo
cervello ovviamente reagisce. Se un amico di
questa persona gli viene messo accanto nel
momento in cui questa prova dolore, il cervello
dell’amico ha reazioni simili, si riscalda con
diversa intensità, ma nelle stesse zone. È l’em-
patia, la capacità di essere sensibili a quello
che accade a chi per noi conta. L’empatia per
Aylan, per Bones che dovremmo provare per
poterci dire esseri umani.
La storia di Don Chisciotte è una storia di
follia. La storia di un’ossessione verso i libri
di cavalleria che sfocia in delirio di onni-
potenza. Una favola mossa da convinzioni
talmente radicate da creare allucinazioni
dalle quali difficilmente ci si distanzia. È la
parabola dell’irrazionalità del cavaliere che
dialoga con la razionalità personificata nel
fedele scudiero.
Di Melania Alessandrini.
Don Chisciotte ha ben chiaro cosa vuol essere,
quale sia il suo destino, ed è cosi che decide
di andare contro la realtà per poter essere ciò
che ha scelto, un eroe che difende i deboli e
ripara i torti. Costruisce fantasiose avventure,
scambiando greggi di pecore per un esercito o
mulini a vento per giganti dalle braccia rotanti
contro i quali lottare. Il fine giustifica i mezzi.
Nonostante esca quasi sempre sconfitto da
queste esilaranti battaglie, il suo animo non si
perde, la sua caparbietà lo porta a proseguire
il viaggio verso l’obiettivo. Il viaggio, appunto.
Ciò che gli permette di vivere un sogno, un po’
come l’archetipo di Ulisse viaggiatore, perché
in fondo viaggiare permette di entrare in con-
tatto con un mondo differente.
Questa è la storia di una realtà alla quale il
personaggio attribuisce significati non con-
venzionali, un po’ come facevamo quando
eravamo piccoli.
Se ci chiedevano cosa volevamo esser da
grandi, sognavamo maestose gesta, la con-
quista del mondo o almeno il miglioramento di
esso. Dicevamo: da grande farò grandi cose.
E nel frattempo ci eravamo creati un’immagine
di noi infallibile e capace di tutto. Era così bello
il mondo dell’infanzia. I sogni, le speranze, la
grande capacità di immaginazione.
Non ricordiamo con precisione quando abbia-
mo messo da parte queste credenze, ma lo
abbiamo fatto. La vita è diventata così razio-
nale. Il mondo fantastico ha lasciato il posto a
quello ordinario. Nulla è perduto per sempre,
semplicemente abbiamo imparato a guardare
la realtà negli occhi e chiuso le immaginazioni
nel cassetto del nostro passato insieme al
mantello da super eroe che sognavamo di
indossare per sempre. Ci siamo adattati alla
realtà, siamo cresciuti con la società, abbiamo
imparato a vivere convenzionalmente. Ciò che
non ha voluto fare Don Chisciotte rifiutando un
mondo che preveda la delusione di non poter
essere ciò che si sognava, dove vi è l’annul-
lamento dell’immaginazione e la razionalizza-
zione che il progetto sognato nell’infanzia non
abbia la sua fattibilità. Oggi se Don Chisciotte
fosse una persona reale gli sarebbe attribuita
una serie di disturbi mentali: ossessione, deli-
rio, narcisismo, follia. Oggi, forse, lo rinchiude-
remmo in un ospedale psichiatrico.
Oggi sarebbe solo un folle.
Ma Don Chisciotte è una storia, scritta a penna
sulla carta, che possiamo rispolverare ogni
qualvolta ci rendiamo conto di aver perso
quella carica emotiva che avevamo da piccoli,
ogni qualvolta rinunciamo ad essere i super
eroi che ci eravamo proposti di essere, razio-
nalizzando in una realtà convenzionale che
tende a spegnere i nostri sogni. Perché c’è una
via di mezzo tra il lottar contro i mulini a vento
e il non veder possibilità in esso.
Tutti dovrebbero conservare il loro Don
Chisciotte, “vissuto da matto e morto savio”.
cervello ovviamente reagisce. Se un amico di
questa persona gli viene messo accanto nel
momento in cui questa prova dolore, il cervello
dell’amico ha reazioni simili, si riscalda con
diversa intensità, ma nelle stesse zone. È l’em-
patia, la capacità di essere sensibili a quello
che accade a chi per noi conta. L’empatia per
Aylan, per Bones che dovremmo provare per
poterci dire esseri umani.
Si chiamava Aylan
Tutti dovremmo essere un po’ Don Chisciotte
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