Di Card. Gianfranco Ravasi
”
SONO SOLAMENTE 180 versetti che
si distribuiscono su due capitoli ini-
ziali del Vangelo di Matteo e sui due
che aprono quello di Luca.
Gli studiosi li hanno denominati
“Vangeli dell’infanzia di Gesù” e,
nonostante l’apparente spontaneità
del testo narrativo, in quelle pagine
si addensano molte e complesse
questioni esegetiche. Il Bambino che
è al centro di quei racconti cela,
infatti, in sé i tratti del Cristo
Salvatore e Signore della storia.
Si tratta, quindi, di testi teologici
intensi, anche se affidati all’incanto
della trama degli eventi.
“
N
oi ora ci fermeremo in maniera mol-
to essenziale e fin “impressionisti-
ca” su due dei vari quadri presenti in
quei versetti: essi sono paralleli e
appartengono l’uno a Luca e l’altro a Matteo.
Si tratta di due “annunciazioni”, come si è so-
liti classificarle, l’una dominata dalla figura di
Maria – ed è certamente la scena più celebre
– l’altra invece con Giuseppe, il padre legale
di Gesù, come protagonista.
L’annunciazione a Maria
Partiamo, dunque, dal brano che l’evan-
gelista Luca dedica all’annunciazione a
Maria (I, 26-38). Il racconto è modellato
su uno schema già noto all’Antico Te-
stamento, quello degli annunci delle na-
scite di alcuni personaggi famosi come
Sansone (
Giudici
c. 13) o il re-Emma-
nuele di Isaia (7,10-17). Siamo a Naza-
ret, un villaggio ignorato dalle Scritture
Sacre di Israele. Un francescano arche-
ologo, Bellarmino Bagatti (1905-1990),
ha identificato una traccia antichissima
della devozione delle origini cristiane
in una casa nazaretana adibita, allora,
a luogo di culto dai giudeo-cristiani:
“Nell’intonaco si trovò un’iscrizione in
caratteri greci. Essa recava in alto le let-
tere greche XE e, sotto, MAPIA. È ovvio
riferirsi alle parole greche che il Vangelo
di Luca mette in bocca all’angelo an-
nunziatore: “
Cháire Maria
, Ave Maria”.
Ebbene, attraverso quella comunica-
zione angelica, segno di una rivelazio-
ne trascendente, si delinea nel testo di
Luca come un piccolo Credo che offre
una perfetta definizione all’identità di
Cristo. Ascoltiamo, dunque, l’annun-
zio a Maria, dopo il saluto dell’“Ave”:
«Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla
luce, lo chiamerai Gesù. Sarà grande e
sarà chiamato Figlio dell’Altissimo. Il Si-
gnore Dio gli darà il trono di Davide suo padre
e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe
e il suo regno non avrà fine […]. Lo Spirito
Santo scenderà su di te, la potenza dell’Al-
tissimo stenderà su di te la sua ombra; colui
che da te nascerà sarà Santo e chiamato Fi-
glio di Dio» (I, 32-33.35). È la stessa procla-
mazione dell’Incarnazione, cioè dell’incontro
perfetto tra il divino e l’umano in Gesù, che è
espressa da Giovanni nella frase essenziale
«Il
Logos
si è fatto carne» (I,14). È per que-
sto che Maria è allusivamente rappresentata
come l’arca dell’alleanza del tempio di Sion,
su cui si stendeva l’“ombra” della presenza
divina ed è interpellata dall’angelo come
ke-
charitoméne
, cioè come “ricolma di grazia”
da parte di Dio.
Suo figlio sarà, come dice il poeta tedesco
Novalis nei suoi
Inni alla notte
scritti tra il Na-
tale 1799 e l’Epifania 1800, «frutto infinito di
misterioso amplesso». E il filosofo Johann G.
Fichte in una predica pronunziata nella festa
dell’Annunciazione a Maria, il 25 marzo 1786,
esclamava: «Ci sembra poco che fra tutti
i milioni di donne della terra soltanto Maria
fosse l’unica eletta che deve partorire l’Uo-
mo-Dio Gesù? Ci sembra poco l’esser madre
di Colui che doveva rendere felice l’intero ge-
nere umano e grazie al quale l’uomo sarebbe
divenuto un’immagine della divinità e l’erede
di tutte le sue beatitudini?».
Ora, noi tutti abbiamo in mente la scena
dell’annunciazione a Maria coi colori teneri
ed estatici del Beato Angelico nel Conven-
to di S. Marco a Firenze. Nell’ultimo dei suoi
Canti spirituali
Novalis confessava: «In mille
immagini, Maria, ti vedo / amabilmente ritrat-
ta / Ma nessuna di esse può fissarti / come
ti vede la mia anima». L’annunzio dell’ange-
lo a Maria è uno dei soggetti spirituali capi-
tali nella memoria culturale dell’Occidente,
ricreato dalla fantasia e dalla pietà di ogni
credente: solo per citare qualche esempio a
noi vicino, pensiamo all’
Annunzio fatto a Ma-
ria
di Claudel (1912), al
Rosario della gioia
di
Marie Noël (1930), all’
Evangeliario
di Pierre
Emmanuel (1978), all’oratorio “cristico” omo-
nimo del musicista francese Georges Migot
(1945-1946), alla veglia natalizia musicale di
Daniel-Lesur (1951), al brano liturgico orto-
dosso dell’
Angelo a Maria
messo in musica
da Modest Mussorgsky (1978-80) e da Piotr
Il’i
č Č
ajkovskij (1887).
Già san Bernardo di fronte all’esitazione e
allo sconcerto di Maria – che alla fine però
si dichiara “serva del Signore”, un titolo bi-
blico di onore e di consapevolezza di un’alta
missione da compiere da parte di colui che
è stato chiamato da Dio – dichiarava: «L’an-
gelo aspetta la tua risposta, o Maria! Stiamo
aspettando anche noi, o Signora, questo tuo
dono, che è dono di Dio. Sta nelle tue mani
il prezzo del nostro riscatto. Rispondi presto,
o Vergine! Pronunzia, o Signore, la parola che
terra e inferi e perfino il cielo aspettano […].
Alzati, corri, apri!».
Ma il tema originario e fondante non può
che essere teologico ed è la radice stes-
sa del cristianesimo: è la persona di Cristo,
«non concepita mai dai sensi umani» ma
dalla «purezza senza macchia di Maria» e
dall’irruzione stessa del divino nella storia,
come canterà Rilke nella sua
Annunciazi-
one a Maria
.
Anche l’originale greco del salu-
to dell’angelo Gabriele,
cháire
, va ben oltre lo
scontato “Ti saluto” o quell’“Ave” tradizionale
della cultura mariana. Di per sé il testo greco
potrebbe ammettere anche una simile resa;
ma l’evangelista, in filigrana, vuol far affiora-
re l’eco di un’altra voce, quella dei profeti e
del loro invito alla gioia messianica rivolto alla
“figlia di Sion”, cioè a Gerusalemme personi-
ficata e, quindi, a tutto il popolo dell’allean-
za. Così, ad esempio, canta il profeta Sofo-
nia: «Rallegrati, figlia di Sion, il re di Israele,
il Signore è in mezzo a te [letteralmente “nel
tuo grembo” […]» (3,14). Nel grembo della fi-
glia di Sion, sede del tempio e della casa di
Davide, Dio entra in dialogo col suo popolo.
Nel grembo di Maria, la sua nuova di Sion, il
Signore si rende presente in maniera piena e
perfetta nel suo Figlio. In questa linea si spie-
ga anche l’appellativo successivo, il già citato
kecharitoméne
, che in greco procede dallo
stesso verbo del “rallégrati”,
cháirein
, e che
da noi è già stato precisato nel suo signifi-
cato genuino: tu che sei stata riempita dalla
grazia (
cháris
) del Signore, perché in lei è pre-
sente Dio stesso nel Figlio che lei concepisce
e genera. Il primato è, dunque, divino; Maria
– come scriverà sant’Ambrogio – non è il Dio
del tempio ma il tempio di Dio. In lei brillano in
pienezza la grazia divina, la volontà salvifica
del Signore, il suo amore redentore.
L’annunciazione a Giuseppe
L’improvvisa e sorprendente maternità di Ma-
ria crea, però, sconcerto in un’altra persona
evangelica, il promesso sposo Giuseppe.
Nella prassi matrimoniale ebraica antica il fi-
danzamento era considerato a tutti gli effetti il
primo atto del matrimonio stesso. A segnalarci
questo sconcerto è Matteo che ci narra una
sua “annunciazione a Giuseppe”.
Leggiamone le battute fondamentali: «Ma-
ria, promessa sposa di Giuseppe, prima che
andassero a vivere insieme, si trovò incinta
per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, suo
sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla,
decise di licenziarla in segreto. Mentre stava
pensando a questo, ecco apparirgli in sogno
un angelo che gli disse: “Giuseppe, figlio di
Davide, non temere di prendere con te Maria,
tua sposa, perché quello che in lei è genera-
to viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un
figlio e tu lo chiamerai Gesù; egli, infatti, sal-
verà il suo popolo nei suoi peccati”» (
Matteo
I, 18-21).
Giuseppe si trova di fronte ad una scel-
ta drammatica. Il libro della legge biblica, il
Deuteronomio, era chiaro: «Se la donna fi-
danzata non verrà trovata vergine, la si farà
uscire sulla soglia della casa paterna e la
popolazione della sua città la lapiderà per
farla morire, perché ha commesso un’infamia
in Israele (22,20-21). Il giudaismo posteriore
aveva attenuato la norma, imponendo però
il ripudio. È ciò che deve fare anche Giusep-
pe. Egli, però, da “uomo giusto”, cioè mite e
buono, vuole scegliere la via segreta, quella
di un atto senza clamore, senza denunzia le-
gale e processo ma solo alla presenza di due
testimoni, come gli consentiva la legge. Ma-
ria se ne sarebbe ritornata alla casa paterna
ma, come accadeva in quel contesto sociale
antico (ma non solo), per una vita emarginata
e infelice.
Ecco, però, l’irrompere dell’angelo: egli è
per eccellenza il segno di una rivelazione
divina, come lo è il sogno (se ne contano
cinque nel Vangelo dell’infanzia di Gesù
secondo Matteo), che è il simbolo della
comunicazione di un mistero.
Giuseppe è
invitato a perfezionare il suo matrimonio con
Maria, sperando ogni perplessità o sdegno, e
ad assumere la paternità legale nei confronti
del nascituro: l’imporre il nome – che viene
spiegato etimologicamente come “salvatore”
(“Gesù” deriva dalla radice ebraica
jasha’
,
“salvare”) – era un atto tipico della patria
potestà. L’origine misteriosa di Gesù Cristo
sarà, comunque, oggetto della polemica
anticristiana fin dai primi secoli. Lo scrittore
cristiano Origene cita un filosofo platonico
del II secolo, Celso, il quale, a sua volta, ri-
mandava a un giudeo che affermava: «Gesù
era originario di un villaggio della Giudea e
aveva avuto per madre una povera indigena
che si guadagnava da vivere filando. Accu-
sata di adulterio, perché resa incinta da un
certo soldato di nome Panthera, fu scacciata
da suo marito, un artigiano. Errando in modo
miserevole, dette alla luce di nascosto Gesù.
Costui, cresciuto, spinto dalla povertà, andò
in Egitto a lavorare; qui apprese alcune di
quelle arti segrete per cui gli Egiziani sono
celebri, ritornò dai suoi tutto fiero per le arti
apprese e grazie ad esse si autoproclamò
Dio». Si intravede, in questo testo, il tentativo
di spiegare anche i miracoli di Cristo e, forse,
in quel nome “Panthera” c’è la deformazio-
ne del greco
parthénos
, “vergine”, applicato
a Maria nei vangeli. La verginità è, però, nel
racconto evangelico un dato concreto ma
profondamente marcato a livello teologico:
Cristo, anche se è generato nella pienezza
di una maternità e dell’umanità, non è
frutto della “carne” e del “sangue”, cioè
non deriva dai puri e semplici meccani-
smi biologici di una generazione creatu-
rale. In lui c’è il sigillo del divino ed è a
questo che è finalizzata la verginità della
madre feconda Maria, che non di rado
le antiche miniature dei codici amavano
raffigurare in evidente stato interessan-
te. A questo punto il nostro sguardo da
Nazaret, ove si sono manifestate le due
annunciazioni a Maria e a Giuseppe, si
rivolge ormai fino a Betlemme, a quella
nascita che costituisce il compimento
delle due annunciazioni.
Vogliamo, allora, concludere questa bre-
ve e libera riflessione ponendo a sugello
un testo per molti versi sorprendente sia
per chi l’ha composto che per il suo con-
tenuto. Al centro c’è, comunque, la figu-
ra della madre di Cristo, la fanciulla di
Nazaret, che stringe tra le braccia il suo
Bambino, un’immagine che dominerà
per secoli l’iconografia colta e popola-
re della cristianità. È Jean-Paul Sartre,
il noto filosofo e scrittore ateo francese
col suo primo testo teatrale
Bariona o il
figlio del tuono
, composto per il Nata-
le del 1940 nello Stalag XII D nazista di
Treviri ove era detenuto, colui che riesce
a esprimere intensamente i sentimen-
ti di Maria che partorisce a Betlemme
non tanto in una stalla – come vorrà la
tradizione – ma in quelle stanze, non di
rado rupestri, che nelle case palestinesi ser-
vivano come dispensa e rifugio invernale, in
compagnia di animali, stanza forse ceduta da
un conoscente o parente.
Ecco qualche riga del suo testo: «Cristo è
suo figlio, carne della sua carne e frutto delle
sue viscere. Ella lo ha portato per nove mesi
e gli darà il seno e il suo latte diventerà il san-
gue di Dio […]. Ella sente insieme che Cristo
è suo figlio, il suo piccolo, e che egli è Dio.
ella lo guarda e pensa: “Questo Dio è mio fi-
glio. Questa carne divina è la mia carne. Egli
è fatto di me, ha i miei occhi e questa forma
della sua bocca è la forma della mia. Egli mi
assomiglia. È Dio e mi assomiglia!”. Nessu-
na donna ha avuto in questo modo il suo Dio
per lei sola. Un Dio piccolissimo che si può
prendere tra le braccia e coprire di baci, un
Dio tutto caldo che sorride e respira, un Dio
che si può toccare e che vive». È paradossa-
le, ma in queste righe di un non credente si
intravede in modo poetico la sostanza della
riflessione tradizionale cristiana che ha attri-
buito a Maria, a partire dal Concilio di Efeso
(451), il titolo di
Theotókos
, “madre di Dio”,
col quale i credenti invocano colei che ha ge-
nerato Cristo.
Tratto da “
Di Annuncio in annuncio
”,
Staurós
.
spiritualità e dintorni
Annunciazione a Maria (e Giuseppe)
Omar Galliani, “La principessa Liu-Ji nel suo quindicesimo anno di età (part.)”, matita e tempera su tavola di pioppo, 200x600 cm, 2008.
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