cura e dipendenze patologiche
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in-dipendenze
Il Giubileo dei carcerati
L’utopia di Basaglia
Il perdono che si concede non è frutto di
sentimentalismo, ma di vita concreta che
si sviluppa nei sentimenti, nelle relazioni,
nei comportamenti.
Di Mons. Vinicio Albanesi
”
Io vi dico: ogni volta che entro in un
carcere mi domando: “Perché loro e
non io?”. Tutti abbiamo la possibilità
di sbagliare: tutti. In una maniera o
nell’altra abbiamo sbagliato.
E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla
possibilità di cambiare vita: c’è poca
fiducia nella riabilitazione, nel rein-
serimento nella società. Ma in questo
modo si dimentica che tutti siamo
peccatori e, spesso, siamo anche pri-
gionieri senza rendercene conto.
Papa Francesco
“
I
l 6 Novembre scorso è stato celebrato a
Roma il
Giubileo dei carcerati
. Nell’o-
melia della celebrazione,
Papa Bergo-
glio
, ha evocato idee, sentimenti, emo-
zioni, adeguate alle condizioni di chi è in car-
cere: speranza, vita, libertà, misericordia, ria-
bilitazione, perdono. Ma ha anche ricordato gli
errori, la privazione della libertà, l’ipocrisia,
l’individualismo e l’autosufficienza di chi giudi-
ca e si sente perfetto. In poche parole ha rias-
sunto il suo messaggio improntato alla spe-
ranza. La riflessione del Papa è partita dalla
misericordia di Dio. Citando passi della Bibbia,
ha ricordato che tutti sono soggetti ad errori.
La risposta evangelica è la prospettiva di una
vita diversa che significa accoglienza, scom-
mettendo su una “nuova vita”, perché il Dio
cristiano è il “Dio della vita”. Questa visione
non è affatto scontata.
È in agguato l’atteggiamento di chi condan-
na, di chi si chiude nel proprio egoismo e nella
propria autoreferenzialità, per sentirsi sicuro e
– cosa più grave – perfetto, pronto a giudica-
re chi ha commesso errori e a difendersi da
chi ha sbagliato. È l’atteggiamento di quanti
non hanno coraggio di andare a leggere la
storia delle persone. In un passaggio il Papa
ha confessato: “Ogni volta che entro in un
carcere mi domando “Perché loro e non io?”
Per mettersi in sintonia con le parole di Papa
Francesco occorre aver incontrato da vicino
chi ha sbagliato ed è stato privato della libertà.
Ci si accorge che è una persona come tutte.
Per le debolezze, errori, impostazioni sbaglia-
te spesso non ci sono nemmeno spiegazioni
sufficienti a capire perché quella persona sia
potuta scendere così in basso.
I misteri umani della vita sono tali nel bene e
nel male. L’unica risposta possibile è accoglie-
re i brandelli di quella vita e ricostruire, pezzo
dopo pezzo, infanzia, adolescenza, maturità
che hanno reso irregolare quella vita, sugge-
rendo condizioni diverse, guardando futuro, ri-
donando libertà. È un lavoro delicato, difficile,
ma anche possibile.
Ciascuno, anche nelle condizione più dram-
matiche, desidera serenità, armonia, felicità.
Intrecciare le circostanze della vita con la pro-
pria condotta è un percorso in salita e anche
doloroso. Ha bisogno di aiuto e di fiducia.
Il perdono che si concede non è frutto di senti-
mentalismo, ma di vita concreta che si svilup-
pa nei sentimenti, nelle relazioni, nei compor-
tamenti. Alla base del rispetto e dell’aiuto da
offrire occorre una visione piena di speranza e
di coraggio. Speranza che si possa ricostruire
esistenze finite male, coraggio nel mettere le
mani su storie che, senza aiuto, potrebbero
definitivamente perdersi. Invocare giustizia,
repressione, sicurezza è un piccolo gioco che
non serve né a chi propone severità, né a chi
ha bisogno di sostegno. Il clima recente non
aiuta ad avere coraggio. L’immaginazione
chiede un mondo ideale, senza prezzi da pa-
gare, senza difficoltà da superare. Ciascuno è
attento alla sua esistenza pensando di poter
risolvere ogni problema, scansandolo; senza
prevedere cadute e senza impegno per la co-
struzione di un mondo sereno. Il rischio evi-
dente è quello della spartizione dell’umanità in
settori in regola e in segmenti a perdere e, ri-
cordando un concetto caro al Papa, da “scar-
tare”. L’illusione porta a un mondo in guerra,
con vincitori e vinti, non capendo che ognuno
può appartenere, di volta in volta, tra i giusti e
i disonesti. Il Papa ha offerto, anche in questa
occasione, una grande lezione di umanità e di
spiritualità cristiana, senza cadere nella gene-
ricità di una esortazione esterna e disinteres-
sata.
Ha mostrato, anche questa volta - come nei
quattro anni del suo pontificato - di avere a
cuore il bene di tutti, esortando al superamen-
to dei legami negativi, incoraggiando a costru-
ire ponti utili al benessere dell’umanità.
La specificità della sua azione indica l’atten-
zione che ha nei confronti dei piccoli e di colo-
ro che sono più a rischio, mettendo in pratica
l’autentico “spirito” di Gesù che “ha privilegia-
to” quanti rischiavano di essere dimenticati e
oppressi. Un comportamento che innervosi-
sce i potenti, ma che non può essere eluso
perché tradirebbe la missione di salvezza.
È dedicato a Franco Basaglia l’evento che
si è svolto a Venezia lo scorso 22 ottobre
nell’ambito di #unfuturomaivisto, la
manifestazione promossa da Fondazione
Con il Sud per celebrare alcune tra le
figure più emblematiche e “per certi versi
profetiche” del nostro Paese.
Di Maria Grazia Giannichedda
Articolo pubblicato su
.
O
ra due parole su
Franco Basaglia
e
sull’idea di utopia che ci ha conse-
gnato, lontanissima dall’utopia di cui
quest’anno ricordiamo il 500° anni-
versario – l’utopia di Tommaso Moro – e da
ogni rappresentazione di mondi ideali in cui
ogni cosa e persona ha il suo posto, e i conti
alla fine tornano.
Basaglia scrive il breve saggio
L’utopia della
realtà
come risposta all’invito che lo psichia-
tra svizzero
ChristianMüller
aveva inviato nel
1972 a lui e ad alcuni altri psichiatri che a suo
giudizio tentavano strade nuove. Disegnate –
aveva chiesto Müller – il servizio psichiatrico
che voi ritenete ideale per una ipotetica città
di centomila abitanti di un paese europeo o
americano. A questa proposta Basaglia ave-
va risposto che non gli interessava affatto co-
struire un’utopia astratta, che sarebbe stata
solo il riflesso dell’ideologia dominante o del-
la sua personale ideologia. Gli interessava in-
vece capire e sperimentare quali spazi, quali
possibilità di utopia fossero realizzabili nella
situazione concreta in cui lavorava, a partire
dalle particolari risorse e vincoli di quel con-
testo, inclusi egli stesso e le persone con cui
si trovava a operare. Scriveva in conclusione
che “
un servizio psichiatrico che contenga un
elemento utopico può essere solo quello nel
quale il tecnico ha la possibilità di vivere prati-
camente la contraddizione tra il suo ruolo di
potere e il suo sapere
”
.
Questa particolarissima visione del rappor-
to tra
utopia
e
realtà
non ebbe grande ri-
scontro negli anni’70, troppo lontana dalle
ideologie tecniche che riconsegnavano la
follia a nuovi specialisti, e troppo estranea
alle ideologie politiche che attendevano da
un cambio strutturale della società il supe-
ramento del problema della follia e dei rap-
porti di dominio. A Basaglia, che prendeva il
malato di mente come punto di osservazione
e metro di giudizio delle società, i due mon-
di che allora erano divisi dal muro di Berlino
apparivano sorprendentemente simili, come
dice diverse volte nelle conferenze in Brasile
specie quando si accorge di parlare a militan-
ti di sinistra. Basaglia è sempre stato convin-
to che il cambiamento delle strutture sociali,
al quale pure è stato impegnato, non fosse
affatto sufficiente per mettere fuori gioco il
problema dell’oppressione dell’uno sull’altro
e per costruire “una società (così ) civile” da
essere capace “
di accettare tanto la ragione
quanto la follia
”, che “
esiste ed è presente in
noi come lo è la ragione
”.
Ma questo significa che niente può cambia-
re? Basaglia è sempre stato polemico con
“
il pessimismo degli intellettuali che alla fine
pensano che non si può far nulla, che si può
solo scrivere libri
”. A questo pessimismo,
ha contrapposto in diverse occasioni “l’ot-
timismo della volontà” di Gramsci, che per
Basaglia voleva dire immaginare e provare
a costruire da subito un altro possibile, par-
tendo dalla propria vita, assumendo le deter-
minazioni del proprio corpo e della propria
storia, usando il potere del ruolo sociale, ma
cercando di trasformare questo ruolo e i suoi
esiti attraverso la trasformazione della prati-
ca, cioè del fare e del modo di essere, perché
“
il cambiamento deve partire da ciascuno di
noi
”.
Oggi:
Compresenza di follia e ragione in ciascun
essere umano, convivenza e coesistenza
tra persone considerate folli e persone con-
siderate ragionevoli: questo era il cuore del
problema per Basaglia, il punto verso cui ten-
dere, è evidente che non ci può essere l’u-
topia come luogo concluso, perché quando
si cerca di far convivere dentro di noi follia
e ragione e quando si cerca di far sì che in
una comunità convivano e lavorino insieme
le persone che stanno nella condizione di
follia e le persone che stanno nella condizio-
ne di ragione, è evidente che si parla di una
situazione in divenire e non di una situazio-
ne statica. Il punto, però, è che nella nostra
organizzazione sociale, le istituzioni, le orga-
nizzazioni agiscono reiterando la separazione
tra follia e ragione, reiterandola come opposi-
zione e impedendone la comunicazione.
”
Su questo Basaglia ci dice che
“la prima cosa da fare è combattere
contro queste istituzioni che
impediscono che ciascuno di noi
possa riconoscere la propria follia
e che i folli possano riconoscere la
propria ragione.
“
Quindi, contrastare le istituzioni, le culture, le
forme di vita che impediscono questa coe-
sistenza e questo ragionamento, contrastare
queste istituzioni e inventare delle istituzioni
che viceversa incoraggino.
Questa secondo me è un’idea di utopia tra-
volgentemente moderna, perché assume in
qualche modo la solitudine dell’individuo,
però crea una comunità di intenti a cui si può
lavorare insieme cercando questo tipo di uto-
pia, questo altro possibile. Mi piace ricordare
una cosa che associo sempre a Franco Ba-
saglia, quando Musil parla di Ulrich nell’
Uo-
mo senza qualità
, dice: “
Lui aveva una straor-
dinaria capacità di pensare altri possibili
”, che
non è il possibile nel senso di “rassegniamo-
ci, è possibile questo”, ma è esattamente il
contrario, sono altri mondi possibili, altri modi
di essere. Ecco, io credo che Franco ci con-
segna questa idea che c’è una situazione ine-
vitabile di lotta, ma che in questo si possono
aprire anche delle possibilità di invenzione, di
creazione e anche di sprazzi di felicità. È un
messaggio che spero capiscano le persone
più giovani capiscano e credo che lo capi-
scano quando realizzano che aver lavorato
per curare la gente in maniera più politica
dentro i manicomi, non è stata un’impresa da
eroi che si sono confrontati con l’abisso, ma
al contrario è stata un’avventura molto diver-
tente, che ancora ci consegna affetti, senso
di comunità, ci consente di stare insieme pur
litigando, tentando di costruire questa strada
in cui l’obiettivo è sempre più in là, e questo è
bello perché ci tiene in esercizio.
(Tratto dall’intervento tenuto il 22 ottobre
2016 a Venezia all’incontro “Un futuro mai
visto – Franco Basaglia, l’utopia della re-
altà”)
Il viaggio verso la costruzione delle tante In-Dipendenze possibili.
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