Anche se l’Italia sconta il “digital
divide”, una percentuale sempre più alta
di persone consulta Internet per guarire
i suoi malanni, veri o presunti che siano.
E quando non ci sono spesso li facciamo
comparire. Gli Stati Uniti
anche qui fanno scuola.
Uno su tre. Questo è il
rapporto che descrive
quanti americani
verificano online le
loro
condizioni di
salute
. Il 35% dei
cittadini è andato
su Internet
per scoprire
come sta,
informandosi
per loro stessi o
per conoscenti,
considerando
che l’81% della
popolazione a
stelle e strisce usa
il mezzo Internet.
Questi alcuni dati
del
uno studio
americano pubblicato alcuni mesi
fa, che descrive come la disponibilità di
informazioni online si unisce al flusso di quelle ricavate
da interazioni con amici, parenti e fra pazienti o con gli
operatori sanitari.
Il rapporto va ad arricchire la
l’evoluzione 2.0
dell’
ipocondria
.
Quando la preoccupazione eccessiva e infondata di una
persona riguardo alla propria salute la spinge a utilizzare
la rete e i motori di ricerca per scovare informazioni, di cui
a volte non verifica la fonte ma che comunque servono a
confermare il sospetto di partenza, spesso infondato, si
rischia di prendere lucciole per lanterne.
E se questo archetipo ha scomodato la letteratura con il
suo
malato immaginario
, l’evoluzione delle tecnologie
per avere conoscenza porta con sé anche l’evoluzione di
questa propensione, non sempre negativa, del fai da te in
campo medico.
.
Se la ricerca di notizie e informazioni viene fatta
con cognizione e competenza, anche
minima, può essere di grande aiuto:
si pensi a quante persone con
malattie rare sono riuscite a
scoprirlo o a trovare cure
tramite forum e scambi
di email oppure
richieste di aiuto
online.
Ma se per un
mal di testa
ci mettiamo
alla tastiera,
scopriremo
che i risultati di
Google aprono
un mondo, a
partire dalla
definzione
corretta del
dolore: sarà
veramente mal
di testa oppure
emicrania, o cefalea?
Considerando che non
tutti hanno ben presente
la differenza dei termini nel
quotidiano uso della lingua, si
capisce che l’utente ‘ingenuo’ può avere
qualche difficoltà. E se invece a digitare la tastiera
è un soggetto che già presenta delle
predisposizioni
all’ipocondria
(stato ansioso o depressivo, ad esempio)
la percezione dei sintomi può venire distorta o
amplificata.
La via più sicura, anche per chi è affezionato a
parole chiave e algoritmi di ricerca, è quella di unire
l’informazione personale, raccolta magari online, ad una
bella chiacchierata con il proprio medico. Male non fa.
di Francesca Gironelli
Ipocondria 2.0 = Cybercondria
quando la tastiera diventa il tuo dottore
Medicina 2.0
Giugno 2013 n. 7 -
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