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CULTURA •
OSSIMORI
Almerino vola
Di Giuseppe Frangi
L
Ed Emma ammette che è stata proprio
questa illogicità di Almerino ad affasci-
narla. Lui non parla, eppure si mette in
relazione con i volatili. Lui non ha cultu-
ra, eppure la città che ha costruito per i
colombi è esito di una creatività libera,
non dettata da necessità specifiche. I
colombi potrebbero benissimo mangia-
re per terra, invece lui costruisce per loro
delle strane alzate, grandi vassoi soste-
nuti da aste di ferro. Quando gli uccelli
arrivano, si trasformano visivamente in
piccoli trionfi di vita e di bellezza. Arte, a
suo modo.
«Mi ha affascinato quella specie di città
in perenne costruzione», racconta
Emma. «Scorgevo nella relazione di
Almerino con lo stormo un qualcosa di
meraviglioso e anche di misterioso. Lui li
lasciava liberi, ma era evidente che tra
loro si fosse stabilito un vincolo, un
legame. Era un rapporto molto naturale
ma ormai diventato necessario: lui
dipendeva da loro e viceversa». Il volo è
libertà, ma anche a quella libertà si
misura un vincolo.
Poco alla volta Emma si è resa conto
che quel percorso di avvicinamento al
mondo di Almerino stava trasformando-
si in un lavoro su di sé. Lo stupore inizia-
le si stava trasformando in una ridefini-
zione del proprio sguardo. E non solo di
quello. «Stando a guardare, cercando di
trasformarmi in una presenza quasi
invisibile ho intercettato livelli più
profondi di relazione. Mi ha colpito ad
esempio quanto l’aspetto tattile fosse
importante nel rapporto tra
Almerino e i
suoi colombi. Loro cercavano le sue
mani, e le sue mani il loro calore».
Emma nell’ultimo periodo delle riprese si
era ritrovata incinta. Altra circostanza
che ha dilatato l’impatto di quell’esperi-
enza: «Ho sperimentato un allargamento
delle potenzialità delle relazioni. Nel
rapporto tra mondo animale e mondo
umano entravano in gioco altri linguaggi,
con loro regole e una ritualità quasi
liturgica».
Quello che ne è nato alla fine è un video
bellissimo, osmotico a quel microcosmo
che è stato vissuto e filmato. Un video
delicato, pieno di silenzi, di battiti di ali e
di carezze. Ma non fine a se stesso,
perché nel percorso si intercetta una
tensione a cogliere la complessità della
vita, a lavorare con pazienza attorno a
quella complessità. Alla fine Emma dice
che nell’inutilità apparente di quella città
costruita da Almerino lei alla fine ha
ricavato un’imprevista utilità: ha capito
come relazionarsi con Ester, la figlia che
poi è nata. Quale ampiezza di spettro
comunicativo avesse davanti a sé. E lo
dice con parole che sono già dense
d’esperienza e che commuovono.
a bellezza s’accasa a volte in
luoghi imprevisti e strani.
Almerino è un anziano contadi-
no che abita in un paese alle
porte di Lecco. Ha un aspetto semplice,
che suggerisce un senso di tenerezza.
Da anni ha scelto di condividere il suo
spazio vitale con uno stormo di colombi,
dei quali è diventato un amico, un
silenzioso confidente, un referente
premuroso. Quella di Almerino sarebbe
una storia destinata a restare tutt’al più
annoverata tra le curiosità se un giorno
da quelle parti non si fosse presentata
una ragazza, un’artista. Cercava uno
spunto per poter lavorare su un tema
che le premeva: quello e della relazione
tra il corpo umano e quello degli animali.
Era un’idea ancora in embrione, che alla
vista di Almerino e del suo mondo ha
trovato una strada da percorrere.
L’artista si chiama Emma Ciceri, è
bergamasca e lavora in quella sorta di
factory, a Stezzano, avviata da Adrian
Paci, che è il suo maestro. Lei ha
sempre lavorato, in modo molto intenso
e poetico, sul tema delle folle. Folle
umane, naturalmente, con dei video
capaci di indagare volti e gesti, quasi a
decifrare ogni volta, cosa tiene insieme
gli uomini.
Questa volta la folla che si era palesata
davanti agli occhi di Emma era una folla
molto particolare: miriadi di colombi che
avevano fatto amicizia con un uomo.
Per due anni ha iniziato a frequentare la
casa e il mondo di Almerino, arrivando
con la videocamera e conquistando
poco alla volta il terreno di quella confi-
denza necessaria per poter iniziare a
filmare. L’arte ha sempre qualcosa di
illogico nel suo dna.
Nel rapporto tra
mondo animale e
mondo umano
entravano in gioco altri
linguaggi, con loro
regole e una ritualità
quasi liturgica.
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