Itaca n. 8 - page 3

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Appunti a margine.
di Alessandra Morelli
P
roviamo a pensare che pratica-
re l’accoglienza possa essere
qualcosa che semplicemente
accade, come ritrovarsi seduti
per caso accanto ad un perfetto scono-
sciuto e per caso sentirne le parole.
Ancora non lo sappiamo, ma quelle pa-
role hanno il profumo di un
richiamo
,
di una misteriosa corrispondenza che
potrebbe convincerci a lasciare per un
attimo la nostra valigia di passeggeri ed
ascoltare.
Ho ascoltato molte parole. Pronunciate
candidamente ed appoggiate ad un in-
glese che esalava in trasparenza tutti gli
accenti del deserto.
Qualcuno dice che è qui
perché doveva salvare la propria vita.
E lo ripete all’inizio ed alla fine
di ogni frase, che è qui perché doveva
salvare la propria vita.
Qualcuno dice che è saltato
sulla barca per istinto,
dopo aver corso per giorni.
A qualcuno manca la propria famiglia.
A qualcun altro
la propria madre mancava già,
donna “scandalosa” che ha lascia-
to marito e figli lungo la strada.
Qualcuno, quando è sbarcato
in Italia, voleva tornare
subito indietro.
Qualcun altro vuole attraversare
il nostro paese, in fretta.
Qualcuno racconta quello che sa fare,
che sa usare le mani, perché in terra di
Costa D’Avorio era un bravo operaio.
Qualcuno racconta quello che sa,
che in terra di Nigeria era un laureato
desideroso di diffondere
la propria conoscenza.
Qualcuno dice “Grazie”, sempre,
anche quando non serve.
Qualcun altro non riesce ancora
a dire il suo nome ad alta voce.
C’è chi sorride, svelando un
dente rotto da chissà quale
grandiosa avventura.
C’è chi guarda con sospetto,
senza alzare troppo la testa.
Qualcuno racconta che in Libia
la polizia sparava alle gambe.
Qualcun altro parla dell’Amore,
che “non si aspetta, si cerca”.
C’è chi chiede libri di poesia,
per imparare la nostra lingua.
C’è chi si stupisce di comprendere,
non si sa come, quello che diciamo.
Tutti hanno segni addosso.
La balbuzie o i traumi sulla schiena.
Nessuno riesce a parlare del viaggio
attraverso il Mare.
Ogni tanto sfugge un sibilo, “Terribile”.
Qualcuno ha scritto che sono
anime so-
spese, vivono in equilibrio tra la voragine
dell’Inferno ed il cielo.
Qualcun altro ha scritto che sono anime
migranti,
si muovono a piedi e con i loro
piedi riusciranno a muovere la Terra.
Così queste anime di passaggio arric-
chiscono il coro di un giorno qualunque.
Donando il meglio della Gratitudine.
N
el 2017 Ama Aquilone Coope-
rativa Sociale ha attivato un
servizio di prima accoglienza
per cittadini stranieri richiedenti asilo
politico.
Ad oggi le persone accolte, tra i 18 ed i
45 anni, sono più di trenta.
ATTUALITÀ •
IL MONDO PICCOLO
Fratelli
di vento
La migrazione è un atto rivoluzionario
in vista dello ius existentiae
“In origine c’è la migrazione. Lo scorrimento,
il viaggio. E purtroppo ce lo siamo dimenticato.”
Di Alessandro Pertosa
G
li uomini hanno smesso di errare quando la
stanzialità ha prevalso sul vagabondaggio,
quando la violenza della parola incontroverti-
bile ha vinto sulla narrazione poetica. Oggi,
persino nel linguaggio comune il termine vagabondo,
sia nella sua dimensione di sostantivo, sia in quella di
aggettivo, identifica e qualifica in negativo una perso-
na senza fissa dimora, che vive di espedienti e condu-
ce un’esistenza mobile, incostante e svagata.
Nel momento in cui si è fermato in un posto, l’uomo ha
cominciato a pensare alla terra come a qualcosa che
gli appartiene per diritto, ed è nata così la cittadinanza.
Una discussione seria sulla migrazione e sui popoli
che si spostano da un continente all’altro non è possi-
bile se non si parte da qui.
La disputa di questi mesi fra i sostenitori dello
ius soli
e dello
ius sanguinis
si basa su pregiudizi atavici diffi-
cili da scalfire. Lo scontro è fra chi crede che la cittadi-
nanza sia riconducibile esclusivamente al sangue, alla
parentela, all’appartenenza familistica, e chi al contra-
rio ritiene che sia strettamente collegata al luogo in cui
si nasce.
Da un lato i conservatori puntano a mantenere i propri
privilegi inchinandosi al culto dei padri; dall’altro i pro-
gressisti propongono di sostituire il culto dei padri con
quello del suolo.
Dunque,
ius soli
o
ius sanguinis
? Queste posizioni
sono entrambe sbagliate, perché presuppongono che
ognuno di noi disponga, per diritto di cittadinanza, del
suolo che calpesta. Ma questo diritto non c’è. È un
pregiudizio. Perché l’unico diritto che si ha, dal mo-
mento in cui si nasce, è il diritto all’esistenza. E l’esi-
stenza è un flusso che può stanziare o migrare. Non
esistiamo in quanto cittadini. Esistiamo perché siamo
umani. E l’umanità non contempla divisioni di alcun
tipo: né sulla base del suolo, né tanto meno sulla base
del sangue. La terra non appartiene al cittadino. La
terra viene vissuta dall’abitatore.
Nasciamo nel mondo
e siamo abitatori del mondo.
E allora, se vogliamo salvarci dalla barbarie e dal-
la violenza non ci resta che pensare a uno
ius exi-
stentiae
. Siamo perché esistiamo. Esistiamo insieme
agli altri calpestando lo stesso mondo, respirando la
stessa aria.
Per portare la discussione su un binario fraterno e
conviviale, si tratta allora di allargare lo sguardo fino a
spingersi al di sopra dei pregiudizi. Chi prova a guar-
dare il mondo dall’alto vedrà che non esistono con-
fini, dogane, né barriere. La terra che calpestiamo è
spesso senza soluzione di continuità. Solo l’acqua del
mare separa a volte un luogo dall’altro. Ma la sepa-
razione è fisica e non biologica, ha a che fare con la
terra, non con la genetica.
Il dibattito sullo
ius soli
o
ius sanguinis
è allora un di-
battito errato. Invece di stabilire in che modo asse-
gnare la cittadinanza, si dovrebbe ragionare su come
provare a superare il limite della cittadinanza. Perché
la cittadinanza è un maledettissimo limite a cui pur-
troppo ci siamo abituati; e che sia di sangue o di suolo
non importa: resta pur sempre un limite becero, che
qualcuno chiama diritto e di cui crede oltretutto di po-
ter disporre a proprio piacimento.
L’uomo è un animale in cammino verso il sogno, l’uto-
pia. Sarebbe bene ricordarselo.
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