Congresso XIX documento 2

Definitivo – Direttivo CGIL, 20 giugno 2022 6 hanno chiuso e trasferito la produzione all’estero, dopo aver preso milioni di euro dai governi. È esemplare la vertenza delle acciaierie di Piombino, dove da 8 anni i lavoratori aspettano un piano industriale, mentre si avvicendano compratori stranieri che promettono, speculano e poi abbandonano il sito. Oltre ai casi più noti di grandi imprese come Termini Imerese, Alitalia e Almaviva, sono centinaia di migliaia i lavoratori e le lavoratrici abbandonati nel silenzio, con l'unica prospettiva fallimentare della cassa integrazione. La legge approvata dal governo nell'autunno scorso non è la soluzione. Non vincola né punisce le aziende che delocalizzano dopo aver ricevuto sovvenzioni, invece formalizza le procedure, stabilendo i tempi e monetizzando i licenziamenti. Rende cioè le delocalizzazioni più facili e certe per le imprese. Sulle delocalizzazioni esiste una proposta, scritta da vari giuristi democratici la scorsa estate durante l'occupazione di GKN, che prevede l'annullamento dei licenziamenti e in caso di cessione dello stabilimento il diritto alla prelazione da parte di una cooperativa di lavoratori e lavoratrici, sostenuta da forme di nazionalizzazione, a partire dai settori in crisi e da quelli strategici. Questa proposta deve essere sostenuta dall'intera Cgil e deve diventare volano di una grande campagna di mobilitazione contro licenziamenti e delocalizzazioni, costruendo le condizioni di forza per rivendicare l'intervento pubblico e le nazionalizzazioni senza indennizzo, in cui lavoratori e lavoratrici divengano protagonisti di un nuovo controllo dei processi di produzione. Per questo bisogna tornare a una pratica conflittuale e di lotta che costruisca mobilitazioni diffuse, alimentando convergenza e solidarietà. Nessuno si salva da solo: per difendere le aziende in crisi, bisogna mobilitare l'intero territorio e il settore coinvolto, modificando i rapporti di forza, anche attraverso i legami di solidarietà. 4. La contrattazione: salario, orario e sicurezza sul lavoro 4.1 Aumentiamo i salari, cancelliamo l'IPCA, conquistiamo una nuova scala mobile L'Italia è l'unico paese in Europa dove, negli ultimi 30 anni, i salari reali non sono aumentati e dove si guadagna meno che nel 1990. Gli stipendi sono stati prima moderati dalla concertazione, poi bloccati da provvedimenti legislativi, infine erosi dalla crisi dell’ultimo decennio. Ma soprattutto pesa l’offensiva padronale: la durata dei contratti nazionali è stata allungata, sono moltissimi quelli che non vengono rinnovati alla scadenza con ritardi clamorosi. È stato da tempo smantellato ogni meccanismo automatico di rivalutazione (scala mobile), sono state depotenziate quasi tutte le progressioni economiche come gli scatti di anzianità (eliminati nella scuola e fermi da anni in molti settori privati). Inoltre, sono state inserite negli aumenti componenti non monetarie (welfare e benefits) e sono aumentate le parti variabili e aleatorie, anche tramite la detassazione. Questa condizione, che da sempre pesa in modo maggiore sulle donne, è stata aggravata dalla pandemia e dalla successiva ripresa con il ritorno dell’inflazione, destinata a crescere nei prossimi mesi a causa della guerra e della speculazione su energia e materie prime. Una situazione intollerabile che pesa in particolare sui redditi più bassi, soprattutto dei precari, ma in generale del lavoro dipendente e dei pensionati/e, anche a causa delle basse rivalutazioni degli stipendi e delle pensioni negli ultimi anni. Tre famiglie su quattro stanno riducendo anche le spese per mangiare e curarsi. Quattro milioni di persone non riescono a pagare le bollette. Tale impoverimento è frutto anche dell’abbandono da parte del sindacato di politiche rivendicative e conflittuali nei rinnovi contrattuali, sia pubblici che privati, con l’accettazione dei vincoli imposti dalle imprese, come il Patto per la Fabbrica del 2018, l'IPCA (indice inflattivo depurato proprio dall'aumento dei costi dell'energia) e la possibilità di derogare in senso peggiorativo i contratti nazionali e le leggi (art.8 legge 138/2011). Anche gli aumenti contrattuali “a 3 cifre” sono ben poca cosa rispetto alla crescita dell’inflazione che si profila. È il caso del contratto dei metalmeccanici, dove l’aumento superiore a 100 euro, scambiato nella primavera del 2021 con un allungamento della durata e una rischiosa riforma dell’inquadramento professionale, ha finito per essere risucchiato dall’inflazione successiva, peraltro su importi erogati ex post, quindi con un anno di ritardo rispetto all’aumento reale dei prezzi. Al tempo stesso, il fatto di non aver contrastato adeguatamente il proliferare della precarietà e le catene di subappalti ha determinato una giungla contrattuale, che alimenta la competizione anche all'interno dello

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