Itaca n. 19

8 9 Fa la sua apparizione ora, il personaggio nuovo e straordinario del nostro racconto. Straordinario prima di tutto per bellezza: una bellezza così eccezionale, da riuscire quasi di scandaloso contrasto con tutti gli altri presenti. Anche osservandolo bene, infatti, lo si direbbe uno straniero, non solo per la sua alta statura e il colore azzurro dei suoi occhi, ma perché è così completamente privo di mediocrità, di riconoscibilità e di volgarità, da non poterlo nemmeno pensare come un ragazzo appartenente a una famiglia piccolo borghese italiana. Non si potrebbe neanche dire, d’altra parte, che egli abbia la sensualità innocente e la grazia di un ragazzo del popolo… Egli è insomma socialmente misterioso, benché leghi perfettamente con tutti gli altri che stanno intorno a lui, in quel salone magicamente illuminato dal sole. La sua presenza lì, in quella festa assolutamente normale, e, dunque, quasi di scandalo: ma di uno scandalo ancora piacevole e carico di benevola sospensione. La sua diversità consiste, in fondo, soltanto nella sua bellezza. E tutti, le signore e le ragazze, lo osservano - senza naturalmente mostrarlo troppo, ben conoscendo in uno, lì dentro, la principale regola del gioco, che consiste nel non scoprirsi mai, a nessun patto. Dentro i limiti della più disimpegnata discrezione, quindi, qualche amica di Odetta, o qualche amica giovane della madre, chiedono chi è quel bel ragazzo nuovo. Ma Odetta alza le spalle. E Lucia si limita a qualche informazione altrettanto disimpegnata, se non a un puro e semplice sorriso. Insomma, di lui non sapremo niente; e del resto non è necessario saperlo. Il corpo è come un soffio carnale pieno di salute fisica e quindi anche - per la crudeltà delle cose giuste - morale. Con quel suo corpo, intatto, misura di un altro mondo- quello dell'innocenza tra salvatrice – l’ospite va a sedersi sul bordo del letto, pronto al suo dovere, con pieta, forse, ma senza nessuna umiliante compassione La nostra famiglia borghese, col suo ospite, è a tavola, così come è già stato tante volte nel corso di questa storia (il suo pranzo è pieno di grazia, ogni particolare della tavola apparecchiata potrebbe essere particolare di un affresco dei tempi in cui la produzione era umana). Chino sul suo piatto ognuno mangia in silenzio. I segreti sguardi d'amore per l’ospite, ognuno se li coltiva dentro di sé, come un affare che riguarda soltanto lui. L’amore comune per l'ospite non è infatti qualcosa che accomuna, e davanti a cui cade ogni difesa, come nelle occasioni in cui si può ingenuamente godere o soffrire insieme. Tutti i membri della famiglia sono resi uguali tra loro dal loro amore segreto, dal loro appartenere all’ospite: non c'è più dunque differenza tra l’uno e l’altro. Lo sguardo di ognuno ha lo stesso significato, lo stesso fine: ma, tutti insieme, non fanno certo una chiesa. (Anche se sacro è il silenzio di quel loro pranzo). Pier Paolo Pasolini Pasolini Appartenere all’ospite È il protagonista senza nome di Teorema, il romanzo e poi anche film che PPP scrisse nel 1968. L’ospite è lo scardinatore dolce e silenzioso di un ordine, quello della famiglia borghese. Presenza imprevista, ma inevitabile. Portatore di un soffio sacro senza etichette. Una sorta di “folle di Dio”, che arriva e se ne va come danzando, senza mai smettere di sorridere, e che riesce a stanare ad uno ad uno tutti i membri della famiglia, allacciando con loro rapporti intimi, senza intaccare la sua purezza. Ecco come lo scrittore lo presenta. LA STANZA DEGLI OSPITI Terence Stamo, l'ospite in Teorema VAN GOGH LA CASA GIAL LA, CON STANZA PER L’OSP I TE Vincent Van Gogh, La casa gialla, 1888 Il 1 maggio 1888 Vincent Van Gogh, arrivato da poche settimane ad Arles, affittava una piccola casa affacciata su Place Lamartine. Era una casa d’angolo con un locale a piano terra, adibito ad atelier, e due stanze in cima alla scala: una per sé e l’altra in attesa di avere un socio per condividere il sogno di una fraternità tra artisti: tra ottobre e dicembre di quello stesso anno sarebbe stata la camera di Paul Gauguin, prima che la convivenza precipitasse nella drammatica notte culminata con il gesto autolesionistico di Van Gogh. Quella casa oggi non c’è più perché, a causa dei danni subiti con le bombe alleate del giugno 1944, alla fine della guerra è stata demolita. Della casa esistono vecchie fotografie ed esiste soprattutto un quadro dipinto nel settembre 1988, uno dei suoi capolavori oggi custodito al Van Gogh Museum di Amsterdam. È grazie a quel quadro che oggi sappiamo il colore della casa: un giallo intenso, quasi abbagliante, che si ritaglia sul blu profondo del cielo. La “Casa gialla”, dunque, proprio come è stata ribattezzata la Casa Augusto Agostini che accoglie le mamme con i loro bambini. Una casa voluta dal grande e sfortunato artista per via di quella camera in più: la camera per l’ospite desiderato e atteso. E il colore giallo è l’espressione cromatica dell’intensità di quel suo desiderio. Su piazza Lamartine si svolgeva quasi tutta la sua vita: al numero 28 della piazza c’era la trattoria dove era solito mangiare. La titolare, la vedova Venissac, era anche la proprietaria dell’abitazione. Sulla destra si vede il ponte della linea ferroviaria che collegava Parigi a Marsiglia: da quel treno Van Gogh era sceso pieno di speranze per avviare la sua stagione al sud. Appena oltre il ponte, abitava il postino Joseph Roulin, un omone buono che conosciamo grazie ai ritratti che Van Gogh gli ha fatto e che con la sua famiglia aveva mostrato sempre grande affetto per il pittore. L’accensione reale o immaginaria del giallo della casa è il corrispettivo dell’accensione della sua anima, che in quei mesi era tutta tesa a realizzare un’esperienza di condivisione, a rompere il guscio della solitudine. Scriveva al fratello Theo in quelle settimane: «Sai mi è sempre sembrato idiota che i pittori vivano da soli. Si perde sempre quando si è isolati». In contemporanea aveva contattato Gauguin, annunciandogli di aver preso quella casa con una stanza per l’ospite: «Io da solo soffro un poco di questo isolamento. E mi sembra che se trovo un altro pittore che abbia voglia di sfruttare il sud e che, come me, sia tanto assorbito dal proprio lavoro da essere disposto a vivere come un monaco, allora la cosa si potrebbe concludere». E ancora al fratello Theo: «Vivendo soli sia l’uno che l’altro si vive come dei matti o dei malfattori, in apparenza almeno, è un po’ anche in realtà». Riuscì nell’intento, per 66 giorni densi di capolavori, ma anche di insofferenze reciproche. Poi, dopo la partenza di Van Gogh, quella stanza è rimasta vuota. Ma è rimasta vuota anche la casa, perché l’artista passò gran parte dei mesi successivi, prima del ritorno al Nord, nell’ospedale psichiatrico di Saint Remy. Tra le persone che avevano messo piede nella Casa gialla c’era Paul Signac, pittore anche lui. Ecco la sua testimonianza: «Mi portò nella sua abitazione a piazza Lamartine e ho visto quadri meravigliosi, i suoi capolavori: immaginate lo splendore di quei muri imbiancati a calce su cui spiccano i suoi colori in tutta la loro freschezza». Era la luce del cuore ferito e ospitale di Van Gogh. Giuseppe Frangi “La mia casa qui è dipinta all'esterno di un giallo-burro e ha le imposte verdi. Si trova in pieno sole in una piazza sulla quale si affaccia anche un parco di platani oleandri e acacie”. Vincent Van Gogh

RkJQdWJsaXNoZXIy NTczNjg=