Itaca n. 19

6 7 Ciò che li muove è un desiderio Matteo Garrone Cosa l’ha spinta a prendere di petto con il suo film il grande tema delle migrazioni? Avevo l’idea di questo film (Io capitano ndr) da molto tempo, da quando diversi anni fa in un centro d’accoglienza un ragazzo di 15 anni mi aveva raccontato di essersi dovuto mettere alla guida del barcone senza averlo mai fatto prima. Un’immagine che mi era rimasta impressa. Poi però avevo accantonato il progetto, soprattutto perché avevo qualche timore nell’entrare in una cultura che non era la mia, non volevo essere l’ennesima persona a speculare sui migranti. Ma poi mi sono convinto del fatto che ciò che resta è il film, e quello è l’importante. Spero che sarà visto dai giovani italiani, è pensato anche per loro, affinché si riconoscano in questi personaggi e magari prendano coscienza dei propri privilegi. Io capitano, 2023 Arturo Martini, L'ospitalità (Pietà), 1931 Una delle parole che stanno alla base di questo suo approccio alla migrazione è desiderio. Ce la spiega? Il motore che mi ha spinto, che ha spinto me in prima persona a fare questo film, è cercare di far capire, o almeno di raccontare, che dietro quei numeri ci sono delle persone, con dei desideri. Gli stessi desideri che da ragazzi avevamo noi, di viaggiare, con le famiglie che si preoccupano, i sogni da inseguire, con la differenza che loro si trovano all’interno di un sistema che gli impedisce di muoversi. Ho raccontato un tipo di migrazione diversa da quella che di solito sentiamo, che prevede che un migrante debba partire solo a causa di una guerra o dei cambiamenti climatici. Gran parte di loro sono semplicemente giovani, che come tanti anche del nostro Paese, hanno accesso ai social, vedono il nostro mondo e desiderano opportunità migliori, occasioni di guadagno per poter aiutare la famiglia o semplicemente desiderano conoscere posti nuovi. Questo a loro è precluso, mentre noi prendevamo l’aereo e andavamo a vedere l’America o l’Inghilterra o i Paesi che volevamo conoscere, loro per farlo devono mettere in gioco la loro vita: è questo che mi ha spinto a fare questo film. Fare un film così è come dare “ospitalità” ad una storia che non viene mai raccontata nella sua verità? Il tentativo è stato quello. C’è chi scappa da guerre, da povertà estrema o cambiamenti climatici, ma in Africa ci sono 52 Stati, quindi quando fuggi da un conflitto e non hai nulla, la cosa più facile è spostarti nel Paese accanto, perché affrontare un viaggio verso l’Europa costa molti soldi. Ho semplicemente dato voce a dei racconti ancorati a storie vere, documentabili, persone che mi dicevano di essere partite, perché volevano in qualche modo cercare fortuna, avere accesso a un mondo che poi è un mondo globalizzato, perché i social ci sono anche in Senegal. I miei due ragazzi vengono da una povertà dignitosa, qualcosa come l’Italia degli anni Cinquanta, c’è il piatto a tavola e c’è questa capacità di relazione delle famiglie numerose, dove la sera ancora si raccontano le storie, invece di stare attaccati ai cellulari. Ma c’è anche la voglia di accedere a un mondo che sembra ricco di promesse, di possibilità di realizzarsi nel lavoro e di aiutare la famiglia per poi tornare in Africa. Le spinte sono tante, ma tra queste cose c’è anche il desiderio di conoscere il mondo. Sono giovani, no? E il settanta per cento degli africani sono giovani. C’è una domanda cui non sanno darsi una risposta: perché dei loro coetanei possono venire liberamente in vacanza in Africa con un aereo, mentre, se loro cercano di andare in Europa, devono rischiare la vita su un barcone? Ma si può tenere fuori dalla porta un mondo che preme? Abbiamo di fronte giovani che, grazie a internet, hanno una finestra costante sull’Occidente e non sanno darsi una risposta al perché i loro coetanei possono venire tranquillamente in Africa, mentre loro non possono andare liberamente in Europa per realizzare i loro sogni. E comunque una cosa è sapere dei pericoli in astratto, un’altra è viverli in concreto. Seydou e Moussa partono con quell’atteggiamento candido e un po’ spavaldo tipico dei giovani di ogni tempo, che vogliono conoscere il mondo e sono convinti di riuscire a compiere qualsiasi impresa. In questo senso il mio film è anche un racconto di formazione: mentre lo realizzavo pensavo ai romanzi di avventura di London e di Stevenson in cui l’eroe affronta una serie di prove che lo fanno crescere. LA STANZA DEGLI OSPITI LA STANZA DEGLI OSPITI na premessa necessaria: non c’è un motivo per cui continuare a leggere versi scritti in metrica secoli fa, se non per un costante bisogno di eroi (archetipi, direbbe qualcuno) che siano in grado di tra-durre, ovvero di condurre alla comprensione, ciò che nel nostro presente storico e umano appare incomprensibile: la speranza degli esuli che per altri si fa lutto e violenza, l’onore che produce orrore, l’amore che porta abbandono. Il nodo è in quella che gli antichi chiamavano xenìa, cioè la “capacità di essere ospitale”. Un vincolo sacro, una legge non scritta che imponeva, pena l’ira degli dèi, di accogliere chiunque si presentasse alla porta di casa senza essere stato invitato, e la cui necessità di essere ospitato era prioritaria rispetto alla conoscenza del nome, della condizione e dell’ascendenza familiare. L’etimologia ci suggerisce che l’ospite è normalmente qualcuno che viene da lontano, che ha bisogno di una sistemazione temporanea e con il quale il padrone di casa intesse uno scambio. Ma se a trovarsi sul limitare dell’uscio sono una donna ed un uomo, tutto diventa intimamente più complesso: il racconto epico lo descrive, oltre ogni ragionevole dubbio. Nel VI libro dell’Odissea, Ulisse approda, esausto, nell’isola di Scheria, dimora del popolo dei Feaci. Nascosto tra i cespugli, decide di mostrarsi nudo a Nausicaa, figlia del re dei Feaci, che si era recata al fiume insieme alle sue ancelle. Contrariamente alle compagne, che fuggono alla vista di quell’uomo sconosciuto e dall’aspetto spaventosamente trascurato, Nausicaa, ispirata dalla dea Atena, resta davanti ad Ulisse e lo ascolta parlare. Poi gli procura del cibo, acqua ed una veste pulita, ammonendo le ancelle: “È un misero naufrago che è capitato, e dobbiamo curarcene; provengono tutti da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro.” L’amore che si deve al profugo (del perché l’epica nonmuore mai) Alessandra Morelli U L’ospitalità, sembra dire Omero, è una postura dell’animo, che è tanto più armonica quanto più gli esseri umani sono differenti tra loro, come Nausicaa ed Ulisse: una giovane ed un adulto, una principessa ed un mendicante, una protettrice ed un superstite. Non di rado l’ospite arriva dal mare: è in questo caso che l’epica conferisce al cuore femminile lo spazio massimo di accoglienza nei confronti di tutti i dispersi. Nel I libro dell’Eneide, Virgilio descrive il naufragio dei Troiani sulle coste di Cartagine. Tra loro c’è anche Enea. Giunto con i suoi compagni in città, incontra la regina Didone, una donna profondamente sola che, dopo la cruenta perdita del marito Sicheo, l’amore della sua vita, ha vagato per molto tempo, prima di trovare un luogo in cui stabilire la sua nuova dimora. Didone si riconosce nel dolore dei profughi che ha davanti a sé, e li accoglie: “una sorte simile alla vostra volle che anch’io, travolta da mille affanni, infine mi fermassi in questa terra: provata dal dolore, ho appreso a soccorrere gli infelici.” Le parole della regina di Cartagine testimoniano come l’ospitalità sia qualcosa che si può imparare, nonostante il proprio dolore e grazie al dolore di un altro. Ci si incontra, per starsene un po’ al sicuro. Prima di tornare in mare aperto. Alessandra Morelli

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