Itaca n. 19

2 3 LA STANZA DEGLI OSPITI LA STANZA DEGLI OSPITI Eccoci, Francesco. Prima di iniziare questa intervista sento di doverti sinceramente ringraziare per questo libro, così umano e così necessario per tutti, non solo per chi ha condiviso con te questa lunga storia. È un libro ospitale, perché chiunque lo legga, quale che sia la sua esperienza, si senta accolto tra queste pagine e finisca con “l’indossare” la vostra storia seguendo una tua bellissima sottolineatura: «Abbiamo preferito indossare la nostra storia, abituati all’emergenza, cercando di abbandonarci a una visione “indomabile”, laica e vastissima, più che affidarci alla certezza delle nostre azioni personali». È il tuo/vostro non metodo, la cui essenza è tutta riassunta nel titolo, “La stanza degli ospiti”. Cominciamo da qui… Francesco Cicchi: La stanza è un luogo fisico. Se usiamo il sinonimo “camera” lo cogliamo meglio: l’accoglienza è preparare con cura la camera per l’ospite. Ma poi è anche metafora di altro. C’è un lavoro che mi capita di fare con i ragazzi: spiego loro che dentro di noi siamo pieni di stanze, la stanza della paura come quella dell’amore. Dobbiamo visitarle e scoprirle, perché ognuno è diverso e le stanze di Giuseppe non sono quelle di Andrea. Per portare allo scoperto questi mondi interiori, l’unico metodo è quello della reciprocità: prendersi cura dell’altro vuol dire prendersi cura di me. Per questo l’operatore si mette non di fronte, ma di lato, sta accanto, accompagna nel percorso, cammina insieme. Colpisce nel libro la sottolineatura ripetuta del valore del ripetere gli stessi gesti ogni giorno. Perché li ritieni essenza del percorso di cura? F.C.: Perché sono l’espressione più vera dell’amore, che non è enunciazione teorica o sentimentale. L’amore è pratica quotidiana, è regola, è la ripetizione del rosario delle cose semplici. Le cinque parole con cui nel libro decliniamo il verbo amare – accoglienza, semplicità, spiritualità, bellezza, dignità -, implicano la concretezza di una ritualità. L’opposto di qualsiasi affermazione dogmatica. Amare è anche la fatica di dire “ti voglio bene”: è incredibile quanta fatica comporti! Ma alla fine è la pratica quotidiana che ti guida ad uno sguardo diverso nei confronti dell’altro, che poi è uno sguardo diverso verso se stessi. Dire “ti voglio bene” genera un volere bene a se stessi. Che peso hanno i nomi nella storia di Ama Aquilone? Il libro ne è pieno… F.C.: Preciso che sono nomi, non cognomi. Un po’ come accade con gli angeli… Nel nome c’è tutto, perché è quello che i tuoi genitori ti hanno dato, hanno scelto per te. E quella scelta custodisce un gesto d’amore, da cui scaturisce una storia, bella o sfortunata che sia. Perché il valore del nome resta anche se ad esempio sei figlio di un abuso: ti dà un’identità, è una cosa che ti viene data e che ti fa vivere. Faccio sempre una raccomandazione agli operatori: chiamare per nome e mai per cognome. Il nome mi emoziona sempre. Recentemente, in occasione di un esame in Ematologia, al mio turno mi sono sentito chiamare dall’infermiera: “Francesco, vieni”. Quell’approccio ha ribaltato il mio stato d’animo, mi ha aiutato a vivere quella situazione. Per te i tuoi genitori hanno scelto un nome che s’addice molto alla tua storia… F.C.: Penso spesso alla situazione di quando sono nato. Mia mamma mi ha partorito in casa e cosa ha fatto mio padre? È andato in Comune per darmi un nome: c’è tantissimo in quel gesto. Era una scelta condivisa, dato che mia mamma era devota a san Francesco e, quando suo fratello era soldato nella campagna di Russia, andava sempre ad Assisi per chiedere protezione. Poi, il nonno paterno si chiamava Francesco. Nel libro non ne parli, ma c’è un episodio del Vangelo su cui vorrei mi dessi un tuo pensiero. È quello di Marta e Maria, quando Gesù va a trovare le due sorelle di Lazzaro e mentre una sta lì ad ascoltarlo, l’altra è costretta a darsi da fare per accogliere la banda degli apostoli. Tu da che parte stai? F.C.: Umilmente dico che sto dalla parte di Marta. Perché esprime l’amore nei confronti di Gesù attraverso una pratica, un fare. Del resto era un approccio familiare anche agli apostoli, che erano gente di lavoro. Marta si preoccupa di accogliere nel migliore dei modi e manda un messaggio potente. È un’attenzione inaspettata, che ti disorienta. Mi ricorda l’approccio di uno psichiatra che ha lavorato in Comunità, Alberto Mancini, che quando vedeva un ragazzo andare in down, lo portava subito a correre con lui, o a volte a lavorare la terra. L’attenzione all’altro si esprime sempre attraverso una pratica. A proposito di correre: il percorso di cura prevede un traguardo? F.C.: Non conta il traguardo, conta il cammino. Spesso la tentazione degli operatori è quella di mettere al centro il risultato e, per ottenerlo, cercano di essere innovativi. Invece io insisto nel raccomandare di essere ripetitivi, perché è nella ripetitività che un ragazzo trova la strada. Nel fare con regolarità e fedeltà le stesse azioni: è una strada che porta ad un recupero di spiritualità e che vale anche per chi ha deficit cognitivi causati dalla sua esperienza di tossicomane. Attraverso la ripetitività si ritrova se stessi e soprattutto si sperimenta di nuovo uno stupore nei confronti della realtà. Lo stupore è la chiave che apre a tutto. Chi si droga pratica una ripetitività ossessiva per cercare l’adrenalina, la scossa emotiva effimera. Praticare una ripetitività di gesti normali in grado di riaccendere uno stupore davanti alle cose, lo ripeto, è la chiave di tutto. Le stanze, le case: l’esperienza di Ama Aquilone è definita dai luoghi. Ad un certo punto del libro (e Vittorino Andreoli lo sottolinea nell’introduzione) si inserisce un up-grade: la casa-cattedrale. Ama Aquilone è una realtà aperta a tutte le esperienze spirituali, ma laica. In che senso la casa è anche cattedrale? F.C.: Nel senso che è il luogo dove ci ritroviamo e dove celebriamo ogni giorno la messa della vita. È il luogo della celebrazione della vita, ma anche della morte, dove siamo chiamati a pensare a tutti quelli che non ce l’hanno fatta. Dove guardiamo alle tante fatiche di cui è stipato il cammino. Ho usato l’immagine della cattedrale non certo per retorica. La casa è il luogo fisico della regola, della ripetitività quotidiana, dove si riscopre la bellezza dei gesti anche grazie alla bellezza di ciò che ci circonda e di ogni minimo dettaglio. È il luogo di una fatica, dove si fa largo quello stupore di cui abbiamo parlato. Per questo alla fine è come una cattedrale, una cattedrale della vita. € 13,00 www.infinitoedizioni.it - info@infinitoedizioni.it FB: Infinito edizioni - IG: Infinito edizioni X: @infinitoed Un gruppo gruppo di ragazze e ragazzi decide di “accompagnare il viaggio” di coloro che la società benpensante nasconde sotto lo zerbino: i senza fissa dimora, i rom, le prostitute, i minori senza famiglia, i tossicodipendenti. Questo è il diario dei loro primi quarant’anni di attività, una narrazione nella quale la storia sociale si intreccia con la Storia: le prediche di don Gallo e la nascita delle prime Comunità terapeutiche, la rivoluzione di Franco Basaglia, la “scoperta” dell’AIDS e il proibizionismo, fino ad arrivare al cuore dei nostri giorni. Il racconto di un nuovo eroismo che ribalta i paradigmi dell’accoglienza, mettendo al centro la reciprocità, la tenerezza, l’ironia. «La stanza degli ospiti è fatta di autenticità, di condivisione, di cooperazione, di aiuto reciproco. E si respira nell’aria che “il tuo io è dentro l’altro e l’altro è parte del tuo essere al mondo”». (Vittorino Andreoli). Francesco Cicchi è fondatore e presidente della Cooperativa sociale Ama Aquilone, una delle realtà più rappresentative della regione Marche, impegnata da oltre quarant’anni sul fronte della marginalità, della pace, dell’integrazione. È autore di Pietra. L’anima e l’infinito da abitare (La Meridiana, 2017). Alessandra Morelli scrive per il teatro, la narrativa, l’arte contemporanea. Francesco Cicchi con Alessandra Morelli La stanza degli ospiti e d i z i o n i infinito GRANDANGOLO GRANDANGOLO GRANDANGOLO Francesco Cicchi con Alessandra Morelli La stanza degli ospiti Presentazione di Vittorino Andreoli La stanza degli ospiti Intervista di Giuseppe Frangi a Francesco Cicchi Il senso del cuscino È un cuscino l’immagine simbolo di Ama Festival 2024. Bellissima intuizione di Andrea Castelletti: il cuscino è il luogo dove appoggiare la testa, dove trovare riposo dopo tanto errare: «Cara testa, appoggiata sul cuscino,/ dentro la neve del letto», cantava Giovanni Testori, testimone commosso al trapasso della vecchia mamma. Il cuscino è luogo caldo che qualcuno ha avuto la premura di preparare, pulito e accogliente, per far sentire a casa chi vi si poserà. Il cuscino è anche soffice, volume senza spigolature, forma che si chiude con molta gentilezza con le alette della federa che lo ricopre. Il cuscino si lascia plasmare, senza opporre resistenze: non pone condizioni. Come quello che compare sulla copertina di Itaca e sui manifesti del Festival, che custodisce la memoria, cioè la forma di chi ha appena accolto. Il cuscino ha anche un suo luogo deputato: è la stanza. E non a caso “La stanza degli ospiti” è il titolo di questa edizione di Ama Festival, titolo derivato dal libro di Francesco Cicchi, appena pubblicato, che è un po’ al centro della due giorni. È bello che Ama Festival proponga un percorso non imperniato su una categoria, pur buona come certamente quella dell’ospitalità, ma imperniato su un percorso che fa riferimento ad una situazione specifica e circoscrivibile: lo spazio fisico destinato a colui che viene ospitato. La stanza a lui o a lei destinata. La stanza che è lì, in attesa della presenza inattesa per cui è stata amorevolmente predisposta. La stanza è un deposito di storie, le tantissime che Henri Matisse, La sieste, 1938 hanno intessuto gli oltre 40 anni di vita della cooperativa Ama Aquilone e che fanno da sottofondo alla storia ricostruita nel libro scritto da Francesco Cicchi insieme ad Alessandra Morelli. La parola ospite ha una caratteristica particolare: vale sia in accezione attiva e passiva. Ospite è colui che viene accolto ma è anche colui che accoglie. L’inglese divide in “guest” e “host” per definire rispettivamente chi è ospitato e chi ospita. Nelle lingue latine invece non si fanno distinzioni, ed è una vera fortuna avere a disposizione un termine che incorpora questa sovrapposizione di senso. Tra ospite-ospitato e ospite-ospitante c’è più che una complementarietà di ruoli, c’è una comunanza di destino. Leggiamo nel libro: «Eravamo piuttosto giovani compagni di viaggio, con i quali i nostri ospiti, barboni, zingari, prostitute o tossicodipendenti, avrebbero percorso insieme un pezzo di strada». Sono le storie di tante individualità che vengono ospitate dentro l’esperienza di un noi. Un noi che è frutto di una coscienza cresciuta sul campo, come racconta Vittorino Andreoli nell’introduzione al libro: «L’ostinazione dei nostri gesti semplici, e un po’ spericolati, avrebbe dimostrato di lì a poco che non esisteva un confine tra il benessere del singolo e quello sociale, né una legittimità nell’affermare “questo non è un mio problema”, perché tutto ciò che accade è, in realtà, un’armonica connessione o, come avremmo fatto incidere su molti dei nostri oggetti quotidiani, tutto è me». Nella stanza dell’ospite tutto è me, cioè tutto è noi. Giuseppe Frangi Francesco Cicchi, presidente e fondatore della Cooperativa Ama Aquilone F. Cicchi, La stanza degli ospiti, Infinito Edizioni

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