12 13 Un dizionario di parole aperte Alla voce “Ospitalità” Nella Lettera agli Ebrei San Paolo scrive: “Non dimenticate l’ospitalità poiché per essa alcuni ospitarono angeli senza saperlo” (13,2). C’è da intendersi sulla definizione di angeli. Non sono quelli alati dei dipinti. Sarebbe troppo evidente offrire loro un posto a tavola. Si tratta invece di figure umane, “angheloi” vocabolo greco che indica i messaggeri. Il verso citato dice che gli ospiti potrebbero essere “angheloi”. Questa eventualità dovrebbe disporre a dare il benvenuto. Credo che sia più di un’eventualità. Credo che ogni ospitalità riceva in cambio un messaggio. Ogni ospitalità è una lettera giunta a destinazione. Ogni forestiero è “anghelos”. Ma io, quando sono stato accolto, ho lasciato o recapitato un messaggio? Se è successo, non me ne sono accorto. Ho tentato di essere impercettibile, dileguandoRobyn Denny, Baby is Three, 1960 mi come i fantasmi prima dell’alba, per andare in fabbrica. Riordinavo il letto, cancellavo tracce di passaggio in cucina prima di uscire. Quando rientravo tardi dal turno serale mi toglievo le scarpe fuori della porta per non fare rumore. Non so di che messaggio posso essere stato portatore. Restituendo le chiavi, chiudendomi l’uscio alle spalle con il mio bagaglio leggero, potevo solo dire a me stesso che non avrei dimenticato l’ospitalità. Ancora oggi a distanza di decenni so a chi devo la gratitudine di essere stato ospitato. Alla voce “Amicizia” La parola ha di molto allargato il suo campo di applicazione. Sui siti della rete indica poco più di un riconoscimento di contatto. Chi frequenta queste piattaforme si trova accreditato di decine e centinaia di tali amicizie. Ne faccio un uso più ristretto. Comporta per me un processo di frequentazione disteso nel tempo. Non è sufficiente essersi battuti sulla stessa barricata, condividere gusti, riti, viaggi. Un’amicizia si fonda su una reciproca selezione ed è sottoposta a continua conferma. Ha per suo statuto la lealtà. Ho allentato e sciolto amicizie per ragioni importanti, per cadute di stima. Peggio quando, invece dell’amicizia, è l’amico a morire. A maggio di qualche anno fa si è fermato di colpo il cuore a Giuliano, Giuliano Fachiri, conosciuto quando si era entrambi autisti nei convogli della guerra di Bosnia. A forza di su e giù si è prodotta la misteriosa caloria dell’amicizia. Ci si trovava nei miei giri per libri, mi fermavo da lui sull’Appennino bolognese e poi si andava insieme. Quando toccava a me pagare il conto in trattoria Giuliano non guardava la lista, prendeva quello che chiedevo io. Così in quei casi ordinavo le sue pietanze preferite, sempre tagliatelle, da non chiamare con lui fettuccine. Di simili minuscole premure è costituita l’amiciDa anni lo scrittore tiene un diario sul sito della sua Fondazione. Viaggiando con lui tra quelle pagine puntuali, sagge e semplici abbiamo trovato tre voci che aiutano ad approfondire il tema di Ama Festival 2024. zia. Sua madre tirava la sfoglia delle tagliatelle per cinque figli maschi. Svuotavano i piatti così in fretta che lei vedendoli ripuliti chiedeva se gliele aveva date. Queste sue storie non si stancava di dire e io di ascoltare. A pensarci cala un’ombra nel palmo della mano che ha conosciuto la stretta delle nostre due e mi succede di serrare il pugno. Ma dice un proverbio spagnolo che gli piaceva: nessuno ti toglie quello che hai ballato. Nessuna morte può revocare l’amicizia. Alla voce “Camminare” Ragionare coi piedi: ho imparato a scuola questa espressione di scherno rivolta agli scolari. Non ho avuto obiezioni alla formula finché non ho cominciato a salire in montagna. Nelle salite come nelle discese ho imparato a ragionare coi piedi. Appoggiarli sul ripido senza farli slittare. Misurare l’ampiezza della falcata secondo la pendenza. Guardare i punti di appoggio per i piedi prima di effettuare il passaggio con le dita sulla parete. Lo scalatore sa che vengono prima i piedi delle mani. Il loro appoggio trovato decide il successivo movimento del corpo. Si usa l’espressione: intelligenza motoria. In una scalata sta nei pochi centimetri delle dita dei piedi che dettano il passaggio da eseguire. Il primo traguardo dell’infanzia non è il balbettio di qualche sillaba, ma la statura eretta. L’abilità di reggersi staccando le mani da terra sta nei pochi centimetri del piede. La scoperta dell’equilibrio è il primo entusiasmo. Ci ho messo mezza vita a capire che i piedi ragionano, con una sapienza che risale alla scelta decisiva fatta dall’homo erectus. La civiltà umana proviene dalla libertà che i piedi hanno concesso alle mani, staccandole da terra. Il gioco del calcio ha poi assegnato dignità e valore alla macchina del piede. Quello sinistro di Maradona andava imbalsamato. Vorrei ospitare e dare da bere Vorrei scrivere qualcosa come la tazza di tè che i tibetani preparano sul tavolo quando parti. Perché stai già tornando. Perché qualcuno ti aspetta. Vorrei scrivere come una tazza che aspetta. Vorrei una scrittura aspettata. Una tazza accogliente. Vorrei ospitare e dare da bere. I bambini aspettano molto. Aspettano sempre. E si fidano che arriverai. Che tornerai. Se sopravvivi all’infanzia quando è una tempesta, diventi molto friabile. Arrivi a scuola e più avanti al lavoro già stanchissima, perché hai fatto tutta la strada cercando di essere invisibile. Si fa molta fatica a essere invisibili, soprattutto in città, dove ci sono certi sguardi che ti bucano e ti trivellano. L’infanzia, anche quando è spaventosa, è un luogo indimenticabile. Per le correnti. Ci sono delle correnti che ti trasportano in posti senza senso, solo festa. Festa del sangue nelle braccia, nelle gambe in corsa, festa nel respiro mozzato, festa di nascondino: «Liberi tutti!» Giocare è diventare forti, è cimentarsi con la morte e con l’invisibilità, è mancare e poi apparire. Se si sopravvive all’infanzia-tempesta non ci si deve mai dimenticare di non smettere di giocare. Giocare con follia, sempre. Ballare nel bosco. Ballare in cucina. Cantare per i fiori. Parlare alle zanzare. Parlarsi per convincersi di continuare a vivere. Non a sopravvivere, a vivere Apollinaire, Il pleut, 1916 proprio. Clandestinamente vivi, fuoco fino alle ossa, di nascosto. È l’estraneità la malattia di chi non si fa adulto: è che vede le maschere, non ce la fa a credere ai recitanti, vede le quinte. Quanti attori convinti di essere viventi. Quante arie. Per cosí poco. Un ruolo che la morte ti strapperà. Chi torna dall’infanzia ha la morte come compagna. Chi è stato nella tempesta soffre di attacchi di gioia. All’improvviso, senza motivo, senza condizione di significato, arriva. Una gioia da poveracci, leggerissima, brezza dentro. Assomiglia ad aver perso tutto? Assomiglia ad aver perso tutto e poi è domani. “Qui alla frontiera cadono le foglie, e benché i vicini siano tutti barbari e tu, tu sia a mille miglia di distanza, sul tavolo ci sono sempre due tazze”. (Anonimo della dinastia Tang). Cosa intendo, mi chiedo, con la parola «bene» quando lo invio a me stessa o agli altri? Certamente, lo stare bene nella propria pelle, nel corpo e nella mente. Trovare un proprio punto d’appoggio nel mondo, come fanno gli uccelli con i rami e lí trovarsi a proprio agio, intonati al luogo e al momento, e fare un dono agli altri. Avere la forza della consapevolezza: non solo ricevere le sue visite, ma saperne reggere la sfida, la sua forza rivoluzionaria, il suo sguardo sovversivo su se stessi e sul mondo. Seguire le invisibili linee. Vedere con limpidezza e profondità dentro di sé e dentro gli eventi e i fenomeni che incontriamo. Avere la risolutezza di tenere fede alle visioni profonde che sorgono e tradurle in azioni. Saldarsi alle parole, non lasciarle uscire da sole, non lasciarle orfane nel mondo, ma legarle al respiro, al cuore pensante, alla riflessione. Essere gentili senza scadere nella compiacenza, senza venir meno al proprio profondo sentire, ma condividerlo senza imposizioni, con parità e senza alcun intento di colonizzazione. Sapersi proteggere. Aver cura di sé, e quindi degli altri. Vedere il mistero che ci circonda ovunque. Sapersi inchinare e chiedere rifugio. Potersi abbandonare al sonno, perché ci si sente in un luogo abbastanza protetto. Potersi sfamare e dissetare. Poter reggere l’insoddisfazione e interrogarla e vederla trasformarsi in spazio aperto. Studiare il proprio carattere e poterne ridere quando va allo scontro con il carattere dell’altro, poterlo lasciar cadere come un costume di scena. Amare e lasciarsi amare. Vivere, respirare, meditare per addestrarsi a essere nulla. Tratto da Chandra Livia Candiani, “Questo immenso non sapere. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano”, Einaudi, 2022 Erri De Luca Chandra Livia Candiani LA STANZA DEGLI OSPITI LA STANZA DEGLI OSPITI
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