Itaca n. 18

7 Così, mentre i Vangeli raccontavano che il saluto di Maria alla cugina Elisabetta fece sussultare il bambino nel grembo di lei, la letteratura si rivolge a quel Francesco di Assisi, che per primo aveva cantato la salvezza non soltanto come un riflesso di Dio sceso in terra a miracol mostrare, ma come un amore generato dalla fedeltà alla terra, per qualsiasi creatura viva sopra di essa e per la morte stessa. Una sorta di cortocircuito logico, lo chiamerebbe Haim Baharier, alla luce del quale l’umanità può imparare a salvarsi, ricongiungendosi innanzitutto con la propria natura. È questa peregrinazione spirituale a rendere gli uomini eroi di un comune destino al di qua o al di là di un confine storico, che divide i sommersi da i salvati. Ma chi sono gli uni e chi gli altri? Il Novecento arriverà ad affermare che, infondo, nessuna redenzione è possibile, perché la salvezza è qualcosa di relativo e banale, proprio come il Male. Scrive Primo Levi: «i “salvati” dei Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.» Ma c’è pur sempre un margine di salvezza per chi trova la via di casa. Ce lo insegna Pinocchio. Da germoglio di un pezzo di legno, diventerà un bambino vero non per essere caduto più volte, per essere stato impiccato nella tempesta, abbandonato ed ingoiato da un pesce-cane, ma per aver imparato a nuotare in mare aperto, portando sulle spalle Geppetto, suo padre, fino alla spiaggia: «-Appoggiatevi pure al mio braccio, caro babbino, e andiamo […]. - E dove dobbiamo andare? – domandò Geppetto. - In cerca di una casa». Pinocchio è salvo quando riesce a trovare la sua dimensione di figlio e di creatura: la sua mèta è nella conquista dell’obbedienza, intesa come ascolto, ob-audire, di una libertà tanto più bella quanto responsabile e difficile da maturare, soprattutto per un burattino che era stato fabbricato senza le orecchie. La salvezza può anche essere racchiusa in una sola parola da ascoltare: è la grande lezione dei poeti. Siamo nel 1916 ed in seguito ad un violento ammaraggio per un guasto al motore del suo aereo, Gabriele D’Annunzio si ferì gravemente all’arcata superiore dell’occhio destro. Fu costretto ad un periodo di temporanea cecità, con entrambi gli occhi fasciati, a letto, nell’oscurità e nell’immobilità. Da questo stato notturno, il Vate viene condotto fuori grazie alle premure della figlia Renata, che si rende fautrice amorevole di un piccolo miracolo. Ritaglia centinaia di striscioline di carta che fa scorrere su una tavoletta di legno, permettendo così a suo padre di scrivere, cartiglio su cartiglio, una frase dopo l’altra, che poi decifrava ed assemblava, custodendo il frutto della rinascita del poeta: «Dimmi tu se noi possiamo vivere senza una ragione eroica per vivere.» Dirà Alda Merini, icona contemporanea di salvezza, che proprio la capacità di esprimersi attraverso gesti d’amore è, nonostante tutto, il rimedio: «Alla tua salute,Amore mio!»

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