4 Bussando alla porta di Mariangela Adesso siamo a casa. È portentoso quello che succede. E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano. Forse ci sono doni. Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo. C’è un molto forte richiamo della specie ora e come specie adesso deve pensarsi ognuno. Un comune destino ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene. ” “ Mariangela Gualtieri vive in un casale nei dintorni di Cesena, la città dov’è nata nel 1951. È lì che ha scritto la poesia che nei mesi del lockdown è stata letta da milioni di italiani. Una poesia che in giorni difficili ha restituito a tanti una dimensione perduta: quella della casa. Un elogio del silenzio «In questo tempo che stiamo vivendo, ho l’impressione di trovarmi su un foglio già fittamente scritto e scarabocchiato. Per questo ogni altra scrittura, ogni altro atto espressivo viene inghiottito da una pagina, che non è più bianca, ma densa di segni ormai illeggibili, per quantità e rumorosità di fondo. D’altra parte, sento con certezza che il silenzio è il luogo in cui meglio ora si accumula potenza, il luogo in cui ogni vocazione può precisarsi e fiorire: attenzione parlo di “potenza”, non di “potere”… Tuttavia c’è una congiura contro il silenzio, tutto pare determinato nel non farlo accadere, nel tenerci lontani da questa dimensione che in fondo abbiamo abitato per migliaia di anni e che ora abbiamo abbandonato, almeno in occidente. Chiunque voglia frequentare il silenzio deve ora con grande determinazione, con ostinazione direi, ritagliarsi una bolla nel frastuono del mondo. Lo si può fare, dunque, soprattutto astenendosi da pratiche quotidiane molto affascinanti, ma di grande intralcio per chiunque voglia per davvero cominciare a diventare ciò che è. L’assillo dei telefoni cellulari, ad esempio, questo canale continuamente aperto con tutto il folto gruppo di persone che costituiscono per ciascuno il proprio mondo; ecco, questa possibilità che in qualunque istante qualcuno possa intromettersi fra me e me, fra me e la mia preghiera, fra me e il mio ascolto, fra me e la mia demenza perseguita, o fra me e la mia più brillante follia, fra me e il mio abbandono… Come si può servire un’arte, una vocazione, lasciando la porta aperta a qualunque intromissione? C’è una troppo fitta rete di frequentazione fra umani e questo indebolisce la salutare, vitale relazione di ciascuno col proprio sé e col proprio silenzio. Ma oltre al cellulare, lo sappiamo, vi sono tutte le altre fascinazioni tecnologiche che ci rapiscono in un continuo intrattenimento. Senza silenzio, io credo, non si arriva alla sala del trono. Senza silenzio non ci vengono riempite le mani di doni. E il silenzio è uno degli elementi naturali, il quinto, secondo me: acqua aria fuoco terra e silenzio. Soprattutto mi preoccupa negli adolescenti questo diminuito dialogo di ognuno con se stesso, sempre impedito appunto dalle varie fascinazioni tecnologiche. C’è una sorta di sponda interiore che si crea spontaneamente in giovane età, che dovrebbe crearsi spontaneamente, una sponda su cui appoggiare il mondo, tutto il fuori di noi che chiamiamo mondo. E su questa sponda cadono gli eventi del mondo e noi impariamo a collocarli nel loro giusto posto, dando ad ognuno il peso ed il valore che merita. Ora questo meccanismo che per millenni ha funzionato, nel silenzio, anche nella noia, viene inceppato dall’assillo tecnologico che ci tiene sempre occupati fuori di noi. E, dunque, si finisce con l’essere interiormente senza appoggio, in un caos dove si confonde il valore delle cose e delle esperienze. La poesia ha proprio questa peculiarità: è parola che tiene con sé il silenzio, parola che ha al proprio centro il silenzio, a differenza della narrativa che pone al centro la parola stessa. Credo che ogni poeta sia esperto di silenzio». Nove Marzo Duemilaventi Mariangela Gualtieri Giovanni Testori, Ciclamini, 1971
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